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giovedì 28 dicembre 2017

Gli Gnomi artigiani e le scarpe del calzolaio




Fiaba rinarrata da Lujanta

Un calzolaio era diventato talmente povero, che aveva solo più il cuoio per confezionare un paio di scarpe. La sera, nella sua piccola bottega, sagomò la tomaia e la lasciò sul tavolo da lavoro, avrebbe lavorato a quelle ultime scarpe il giorno dopo, del resto era arrivata l’ora di andare a letto e così andò a riposarsi, affidando al sonno i suoi ultimi pensieri. La mattina successiva quando fu l’ora di rimettersi al lavoro, lo stupore lo colse. Sul banco da lavoro, dove solo la sera precedente aveva lasciato i pezzi di cuoio tagliati, esposte in bella mostra c’erano un paio di scarpe bell’e finite. Non sapeva cosa pensare e mentre era ancora assorto nel suoi pensieri di incredulità, entrò un acquirente, e voleva proprio quell’unico paio di scarpe, pagandole anche una cifra importante, cosa che gli permise di acquistare il cuoio per ben due paia di nuove scarpe. Quel pomeriggio e sino a sera tagliò la pelle per le nuove calzature e la pose sul tavolo da lavoro un’altra volta, prima di andare a dormire. La mattina seguente si verificò la stessa scena, le due paia di scarpe erano pronte, prodotte a regola d’arte, precise nei particolari e nelle rifiniture. Non mancarono i clienti che le acquistarono e così facendo il calzolaio ebbe i soldi per comprare il cuoio per quattro paia di scarpe. La scena si ripeteva uguale ogni sera; lui metteva sul tavolo da lavoro il materiale per la manifattura delle calzature ed al mattino le trovava pronte per la vendita a coloro che erano interessati all’acquisto e che sembravano aumentare di giorno in giorno. Una sera, prima di addormentarsi però, l'uomo nel frattempo diventato ricco, manifestò alla moglie la voglia di scoprire quale segreto si nascondesse dietro quelle produzioni artigianali tanto perfette. Così si nascosero dietro dei vestiti da lavoro ed allo scoccare della mezzanotte videro arrivare due piccoli uomini completamente nudi, che si misero subito all’opera. Che meraviglia vedere con quanta precisione e dedizione si dedicavano a dare la forma, ad unire i pezzi di cuoio alla suola, ad inchiodare perfettamente, a fare cuciture precise, fino ad aver completato tutte le paia di scarpe per cui il calzolaio aveva lasciato pezzi di cuoio sul tavolo, andandosene poco dopo. 




Il calzolaio e la moglie ritornando a letto, si resero conto che la loro ricchezza dipendeva dall’aiuto immenso di quei due piccoli uomini. La moglie ebbe un’idea, ringraziarli con degli abitini! Sì! Era l’idea giusta, inoltre era anche il Tempo di Natale e faceva freddo, vestiti nuovi avrebbero protetto i due gnomi dalle temperature rigide dell’inverno, e così il giorno successivo la moglie del calzolaio preparò pantaloni, camicia, panciotto, maglione e calze per  i due ometti laboriosi ed il calzolaio creò due paia di scarpe con cuoio di prima qualità per tenere i loro piedi al caldo. Alla sera lasciarono tutto sul tavolo da lavoro, ed attesero sempre nascosti, il ritorno dei piccoli esseri.  A mezzanotte in punto, gli gnomi entrarono nel laboratorio, appena videro i vestiti e le scarpe per loro ebbero una manifestazione di gioia, capirono che il loro supporto era stato gradito e che il calzolaio non aveva più bisogno del loro aiuto. Si vestirono ed uscirono così felici dalla bottega saltellando e danzando. Il calzolaio e la moglie si strinsero in un abbraccio, partecipi della gioia degli gnomi, ora l’attività avrebbe potuto andare avanti da sola, ma la loro gratitudine rimase immensa verso quegli amici giunti dal bosco, che ora sapevano esistere per davvero e che sicuramente sarebbero andati a dare sostegno a qualche altro artigiano in difficoltà, portando fortuna e ricchezza come avevano fatto con lui.




Note: 
Questa fiaba dei Grimm è la prima di un triplice racconto sugli gnomi ed è la numero 39. Il suo titolo originale è ‘Il calzolaio e il lavoro che fecero per lui’, mi sono ispirata nella riscrittura alla prima edizione degli autori datata 1812, rileggendo anche la traduzione del 2010 della Professoressa Dal Lago Veneri, nella sua raccolta eseguita sulla versione edita nel 1936, di Otto Ubbelohde, che curò anche l’illustrazione delle stesse fiabe. Ho trovato poi una versione di Marco Massignan, che manifesta alcune leggere differenze, e che la attribuisce ad una valle locale, la Gadertal -Val Badia con una aggiunta inerente il nome del calzolaio che si sarebbe chiamato Toni. Tale versione datata 2006 riporta come documento a cui lo scrittore si è riferito un sito non più esistente e quindi le fonti non sono comprovabili. Questa fiaba però, viene riportata esattamente come la versione del Massignan anche su un paio di siti della valle in questione di cui ho letto. Potrebbero esserci state due fiabe uguali che si siano sovrapposte per così forte similitudine oppure no, una cosa è certa nella versione ufficiale dei Grimm, la fiaba non è attribuita a nessun luogo in particolare. La mia versione è una rinarrazione, in cui il finale ha una aggiunta. In tutte le varianti lette, alla fine gli gnomi escono dalla bottega per non farvi più ritorno, nella mia versione il calzolaio realizza che gli amici del bosco possono rendersi visibili agli umani e dare aiuti concreti, quindi la mia parte terminale varia con la certezza che loro semplicemente andranno ad aiutare altri artigiani in difficoltà portando fortuna e serenità come hanno fatto con lui.




Immagini 

Tratte dal web

Bibliografia

*Jacob e Wilhelm Grimm – Tutte le fiabe. Prima edizione integrale 1812-1815 a cura di Camilla Miglio- Donzelli Editore, 2015 Pag. 180-181
*Grimm - Tutte le Fiabe, a cura di Brunamaria Dal Lago Veneri Newton Compton Editori, 2010 Pag. 143-144
* Marco Massignan – Il Piccolo Popolo. Elfi, gnomi, folletti e creature fatate – Xenia Edizioni, 2006 Pag. 54-56

martedì 26 dicembre 2017

Da un antico passato a Paracelso e oltre, gli Gnomi della Conoscenza





Legati fondamentalmente all’elemento Terra, entità ctonie, appena vengono nominati portano alla memoria piccoli esseri dal tipico cappello a punta, che fanno parte di una classe formata da quattro rami, legati ai quattro elementi: Terra appunto, Aria, Fuoco e Acqua. Queste entità degli elementi, fulcro insieme ad altre manifestazioni del sacro delle religioni pre- cristiane vennero poi anche riassorbite in dottrine ermetiche ed alchimiste sin dal Medioevo, in cui si asseriva che l’essere umano e tutte le creature fossero generate dalla composizione di queste quattro sostanze allo stato puro.  Gli gnomi spesso assimilati anche a nani ed elfi, che però mantengono peculiarità proprie, sono Esseri della Terra. Il loro nome deriva da Paracelso che li definì così, nel 1493, attribuendo tramite il loro nome la caratteristica degli stessi gnomi, che è quella della Conoscenza. Il termine deriva del resto da ‘gnosi’. Abili ed intelligenti, abitano in luoghi isolati, in cunicoli scavati sotto le piante, negli incavi dei tronchi o in grotte o ancora in miniere abbandonate dove lavorano i metalli insieme ai Nani, la loro capacità di muoversi nel sottosuolo è pari a quella che hanno gli esseri umani a muoversi sul suolo. Nel Rinascimento, quando le scienze sperimentali acquisirono rilievo, la credenza nei quattro elementi divenne desueta ma fu proprio il medico ed alchimista svizzero Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus Von Hohenheim detto Paracelsus o Paracelso, che andando controcorrente, nel suo libro edito postumo nel 1658 dal titolo ‘Liber de nymphis sylphis pygmaeus et salamandres et de ceteris spiritibus', descrisse in maniera dettagliata per la prima volta gli gnomi. Custodi dei tesori della Terra, leggendo di varie tradizioni ho potuto rilevare come ad esempio nel mondo britannico siano visti come entità capricciose e non particolarmente benigne, mentre nel mondo alpino e dolomitico ma anche appenninico invece si relazionino in maniera amichevole con gli umani, intervenendo talvolta con aiuti tangibili in quanto una delle loro caratteristiche è essere abili artigiani oltre a conoscere i magici segreti del mondo animale e delle piante in aggiunta a quello delle pietre e dei minerali, di cui si narra che custodiscano importanti tesori nei loro regni sotterranei. La loro statura non supera gli 80 cm hanno lunghe barbe e talvolta portano i baffi, le gnome spesso portano trecce. 





I loro cappelli conici sono tendenzialmente rossi ma possono essere anche di altri colori. In determinate zone traggono il loro nome dall’area di appartenenza come i Guriuz, gnomi piuttosto selvatici, robusti e con barbe irsute, che abitano l’area di Guriude (o Goriude), nei pressi dell’altipiano del Canin in provincia di Udine.








Immagini tratte dall’archivio personale


Bibliografia

*Catharine Briggs – Dizionario di Fate, Gnomi e Folletti e altri esseri fatati –  Pag. 214 Avagliano Editore, 2009
*Marco Massignan – Il Piccolo Popolo, elfi, gnomi, folletti e creature fatate- Xenia- 2006
*Dino Coltro – Gnomi, anguane, basilischi – Pag. 100 Cierre Edizioni, 2012

venerdì 1 dicembre 2017

La Willeweiß, l'Antica Signora delle Profezie delle Montagne (Schlern — Rosengarten/Sciliar — Catinaccio, BZ)




Va e viene, ma nessuno sa dove vada o da dove venga. Abita nelle radure di larici, o tra abeti e faggi, ma non pensate che abbia una casa come gli altri umani: lei non ha bisogno di quel tipo di dimora. Parla con gli animali e comunica con i massi nel bosco, interpretandone le linee del tempo. La si può incontrare in paese, con lo sguardo perso nel vuoto, mentre confabula sommessamente di ciò che scorge oltre il visibile.

A lei nulla è sconosciuto: né il passato né il futuro. Di ogni persona, di ogni evento, conosce le segrete trame del tempo. Di tempo, del resto, lei ne ha vissuto moltissimo. La Willeweiß è anziana, incredibilmente anziana: alcuni dicono che abbia centinaia di anni, altri migliaia. Le sue ossa fragili, bianche come porcellana, sembrano sul punto di frantumarsi da un momento all’altro. Eppure, lei non può morire. È la Guardiana del Tempo e di tutto ciò che sfugge alla conoscenza umana.

Nel suo corpo alberga perennemente il gelo. Forse è per questo che, specialmente in inverno, entra nelle case con un saluto appena accennato e si siede nella Stube, accanto al fuoco. Taciturna, raramente si esprime e solo per formulare i suoi vaticini. Le sue profezie, ben note alla gente della valle, si sono sempre avverate.

In quell’inquietante silenzio, i valligiani la lasciano accanto al fuoco per tutta la notte. Chi la ospita non può fare a meno di considerarla una presenza che suscita sorpresa, attesa e, al contempo, timore per un possibile atto di veggenza.

È viva ai limiti della vita, non morta ma tutto in lei parla di qualcosa di morto. Le famiglie del villaggio hanno tentato più volte di allontanarla, quella strana donna anziana, ma senza successo. Finché un giorno qualcuno scoprì che per tenerla lontana dalle abitazioni e dal loro calore bisognava stupirla. Certo, non era una cosa facile. Dopo lunghe riflessioni, fu suggerito di mettere sulla stufa dei gusci di uova rotte, e così fecero.

Quando giunse il mattino la vecchia ebbe un sussulto e disse:

"Sono la Willeweiß, lo Spirito più antico di queste montagne,

I miei occhi hanno visto ed ho udito di tutto

Nove volte bosco e nove volte prato

Il bosco come una palude

Lo Schlern come una noce

Il Gepleng come una lama di coltello

Il Rotwand come la mano di un bambino

Il Tschagerjoch come una gemma

Ma mai un focolare pieno di gusci di uova bianche come le mie vecchie ossa"

Dette queste parole si allontanò dalla casa, nessuno la vide mai più.

Lei è la Willeweiß, la Signora della Profezia che non può morire.



Note:

Di questa figura leggendaria è interessante quanto sia una figura di “confine”: molto anziana, ai limiti della vita, eppure incapace di morire. È proprio quella condizione liminare a renderla percettiva del passato e del futuro. Il suo sguardo non incrocia mai quello degli altri, eppure Lei vede tutto. 

Visionaria e misteriosa, la Willeweiß parla in modo strano, eppure ciò che dice trova sempre un senso per chi la ascolta: il tempo, infallibilmente, le dà ragione.

Questa profetessa, almeno secondo questa leggenda, è particolarmente legata a specifiche zone, tra cui Welschnofen — Nova Levante, Eggental — Val d’Ega, Tiers — Tires, Völs am Schlern — Fié allo Sciliar, Seis am Schlern — Siusi e Ritten — Renon. In particolare, vi sono alcuni masi che si collegano alla sua presenza, il più noto dei quali è il Geigenhof, che riporta la sua leggenda anche sul proprio sito.

Il personaggio mitico della Willeweiß trova attestazione in diverse opere: in Sagen aus Tirol (1891) di Ignaz Vinzent Zingerle ; nel testo di fine Ottocento di Johann Adolf Heyl, Volkssagen, Bräuche und Meinungen aus Tirol (1897); e agli inizi del Novecento nel libro di Franz S. Weber, Laurins Rosengarten, Sagen aus den DolomitenLa versione da cui ho tratto la mia rinarrazione proviene dalla Professoressa Dal Lago Veneri, che a sua volta si è ispirata all’opera di Heyl.

La mia scrittura è al presente, per sottolineare le peculiarità di questa Guardiana del Tempo. Sebbene la versione a cui faccio riferimento parli di un’epoca lontana, quando si narra che nessuno l’abbia più vista, la frase finale — in cui ribadisco che Lei non può morire—sottolinea il suo esistere ancora. Se questa leggenda insegna qualcosa, è che nessuno l’ha più incontrata, ma essendo Lei la Donna che non può estinguersi, la mia interpretazione si lega all’idea che questa Signora delle Montagne, figura invernale legata al Ghiaccio ma anche al Fuoco, sia stata progressivamente allontanata dall’immaginario collettivo.

In questa lettura, una donna che manifesta caratteristiche così straordinarie viene temuta e, di conseguenza, esclusa dalla comunità fino a non essere più incontrata. Provate a cercarla, la Willeweiß, nell’essenzialità della stagione fredda: vicino al focolare, nelle sere invernali, o su un sentiero, quando il silenzio è rotto solo dal rumore dei vostri passi sulla neve e un sussurro improvviso vi giunge alle orecchie. 

Un dettaglio curioso: nella leggenda, la Willeweiß scompare dalla vista di tutti dopo aver visto i gusci d’uova, bianchi come le sue ossa, aperti sulla stufa. Analogamente, in Piemonte, nelle valli occitane ai confini con la Francia — territori quindi molto lontani dai gruppi montuosi sudtirolesi — troviamo un’usanza simile legata ai Sarvanot, celebri figure locali che vivono in simbiosi con la natura. In Val Maira, si tenta di impedire loro l’ingresso nelle case ponendo davanti all’uscio gusci d’uova rotte; mentre in Val Varaita, si narra che i Sarvanot scomparvero dalla vista di tutti proprio dopo che qualcuno mise sulla stufa gusci d’uova bianche. Gli stessi che ritroviamo in questa leggenda locale.






Immagine

*Tratta da internet. Autore sconosciuto. Se sei l'autore dell' immagine pubblicata e desideri che venga aggiunto un credito o che l'immagine venga rimossa, ti prego di contattarmi.

Bibliografia

*Dal Lago Brunamaria, Fiabe del Trentino Alto Adige, Arnoldo Mondadori Editore, 1989

domenica 26 novembre 2017

La selvana del maso di Campitel di Fassa

Immagine tratta dal web


Leggenda rinarrata da Lujanta


Si narra di un giovane contadino di Campitel(lo) di Fassa, che quotidianamente andava a far fieno lungo i pendii dei propri terreni in Val Duron. Durante una delle pause, dal duro lavoro, che lo portava a tagliare erba e fiori profumati con cui le sue vacche si sarebbero nutrite, lo sguardo si perse poco più in là, rapito dalla bellezza di una giovane fanciulla, che insieme ad altre stava raccogliendo erbe odorose. Che belle che erano quelle ragazze! Tutte dai lunghi capelli e dai corpi che trasparenti rilucevano al sole! Il contadino capì che erano selvane (1) come erano chiamate in quella zona. Lei, si voltò verso di lui e gli sorrise, per lui fu amore a prima vista, al punto di non volere nemmeno tornare a casa, nella speranza che in quello stesso giorno lei tornasse a farsi vedere. Ma passarono i giorni e la bella ragazza non si fece più vedere. Il contadino non si perse d’animo, aveva deciso che avrebbe voluto sposarla e per sapere come fare a conquistarla si rivolse ad una vecchia donna, una saggia del paese. L’anziana donna prese uno dei suoi antichi manuali, il suo dito scarno iniziò a scorrere da una pagina all’altra sino a che trovò ciò che cercava. “Dovrai prendere due buoi che traineranno un carro, nasconderli dietro ad un masso ai limiti della tua proprietà, e legarne le zampe, affinché non facciano rumore. Quando la ragazza arriverà le getterai in testa la corona di grano che prenderai dalla Stube (2) del tuo maso (3), e la calmerai con una pozione al papavero che avrai preparato tu stesso. Ma bada bene, quando caricherai la ragazza sul tuo carro, i suoi lunghi capelli, per nessun motivo dovranno toccare terra, altrimenti lei si trasformerà e scomparirà. Invece se riuscirai a portarla a casa, lei sarà la migliore moglie possibile, a meno che suo padre non la richiami a sé.” L’uomo annuì, aveva compreso bene le indicazioni e si preparava a metterle in pratica. Quando ebbe tutto pronto, si sedette attendendo che le selvane tornassero. Era impaziente, e continuava a ripetere dentro di sé i passaggi che lo avrebbero portato a condurre alla sua abitazione la ragazza. Dopo poco, scorse le selvane! Erano ritornate! In un lampo, prese in braccio la ragazza, la caricò sul carro, le mise in testa la corona di grano che aveva preso da casa e le fece bere la pozione calmante di papavero e soprattutto raccolse i lunghi capelli, affinché durante il viaggio non scomparisse dalla sua vita.
Passò il tempo, la ragazza divenuta donna, si era innamorata dell’uomo, abituandosi alla sua nuova vita di moglie e madre. Ma era amata non solo in famiglia. La comunità tutta la considerava una benedizione, aiutava tutti , insegnava a filare il lino, come a seminare e raccogliere erbe aromatiche e medicinali.
Ma un giorno, uno come tanti, si appoggiò al davanzale della finestra un uccellino che le disse: ‘Sorella, nostro padre è morto’. La Selvana, preparò le sue cose in fretta e furia, con la morte nel cuore, baciò il marito ed i figli che non avrebbe più visto e scomparve lassù dove il contadino, molti anni prima si era innamorato del suo sguardo e del suo sorriso, lassù lungo i pendii della Val Duron.

Note: rinarrazione de ‘La Selvana del Mas Fosal’. A sua volta il racconto è tratto da ‘Detti popolari’ di Ignaz Vinzenz Zingerle.

     (1)  Selvana o salvana 

(2) La Stube (ted.) nella tradizione montana sudtirolese ed austriaca ma anche tedesca è quella stanza della casa, corrispondente al soggiorno-sala da pranzo. La caratteristica struttura, generalmente posta a sud e completamente rivestita in legno, generalmente di cirmolo, è dotata di una panca che corre lungo le pareti, a cui davanti sono posizionati tavolo e sedie. Rappresentava nelle abitazioni specialmente antiche, il luogo dove la famiglia si riuniva per i pasti, così come per passare le serate o le giornate d’inverno  e svolgere le attività di tessitura e ricamatura, visto che nei mesi più caldi e per la maggior parte delle giornate la vita si svolgeva all’esterno della casa. Era l’unica stanza riscaldata dell’abitazione.

 (3) Il maso (ted. Bauernhof)  è la tipica abitazione di montagna dolomitica, la sua origine è celto-retica.  Il nome trae origine dal latino 'mansus' che definiva un appezzamento agricolo. E’ costituita da un’abitazione, da stalle per gli animali e capanni a vario uso oltre a terreni e boschi intorno. Praticamente una porzione di territorio che doveva permettere ad una famiglia di vivere fra agricoltura di montagna e allevamento. Molte di queste abitazioni si tramandano di generazione in generazione da secoli, grazie all’indivisibilità della proprietà garantita da un istituto di tutela che rende il maso ‘chiuso’, una legge di origine medievale che fa si che la struttura alla morte dell’ultimo genitore venga ereditata dal figlio più vecchio, che dovrà  agli eventuali fratelli e sorelle un indennizzo proporzionale al valore dell’eredità stessa, che permette al contempo il mantenimento non solo della tradizione contadina e familiare, ma anche culturale. La normativa negli ultimi decenni è stata adeguata, anche le donne, piuttosto che un coniuge superstite possono ricevere in eredità esclusiva un maso.



Bibliografia

*Bruna Maria Dal Lago, Elmar Locher - Leggende e racconti del Trentino Alto Adige, pag. 35 - Newton Compton 1983

Narrare per tramandare

                                                      


                                          
Foschia bassa scende sul paese tutto, in una giornata che attende la neve. Fuori un silenzio surreale che sembra scandire i passi della Bianca Signora che tornerà nella notte. In casa, solo il crepitio del fuoco ed il mio sguardo assorto nei miei mondi interiori, nei miei "Si narra di un tempo in cui…"

Nasce così il desiderio di ricordare nuovamente quello già raccontato da altri, grandi scrittrici e scrittori, per rendere queste storie ancora una volta fruibili. Racconti e leggende che sono giunti sino a noi con la voglia di essere tramandati: su un divano in una sera d’inverno, o nel fresco di un giardino d’estate; racconti da leggere ai bambini prima di addormentarsi, o da condividere fra adulti. Si, anche fra adulti, perché oggi, erroneamente, si pensa al raccontare come a un qualcosa di legato esclusivamente all'infanzia. Eppure nel mito, nella fiaba, nella leggenda, ci sono elementi che appartengono al Non—Tempo, che parla a ogni età.

Nel racconto vi è, appunto, il Potere del Non—Tempo, quel luogo dell’animo a cavallo tra il prima ed il dopo, tra passato e futuro, che, immobile accoglie chi ascolta, tramandando tradizioni, simboli e conoscenze. Il racconto leggendario, la fiaba, è varco: invita all’ascolto, rapisce nella sua semplicità e attraverso i suoi simbolismi narra un dialogo con quella parte profonda dell’inconscio collettivo, connessa agli archetipi, le rappresentazioni mentali primarie.

Gli antichi popoli, in sintonia con i cicli della Natura, conoscevano bene questo Potere, e lo hanno trasmesso di generazione in generazione, in una sera come questa, di fronte al fuoco, prima di abbandonarsi al buio della notte. Storie che nel lento, cadenzato ritmo del passaggio nei secoli, hanno mutato forma ma mai essenza, acquisendo i colori del tempo: religiosi, culturali e simbolici. Fino ad arrivare alla nostra cultura che, perdendo l’autentica connessione con il ritmo della Terra, ha spesso relegato, dimenticandone la forza trasformativa, il racconto e la narrazione al gioco o alla puerilità.

I raccontastorie di oggi, invece, narrano per tutti, piccoli e grandi, perché la capacità evocativa del racconto è lenitiva e guaritrice sia per chi narra che per chi ascolta. Essa va oltre il limite del fuori e del dentro, agendo in uno spazio che sembra dividere ma che, in realtà, diventa punto d’unione.

Così, l’antico Bardo, poeta e cantore arcaico quanto attuale, diventa, qui nella Terra delle Dolomiti, colei o colui che narra delle creature leggendarie dei boschi, delle acque, delle grotte, di figure dai nomi spesso locali se non dialettali. Narra di popoli leggendari, di luoghi antichi, di Divinità divenute poi Sante e Santi vestiti di Luna e di Sole. L’uditore sarà condotto in mondi magici, tra i versanti di alte montagne e di vallate, che, una volta conosciuti, potrà ritrovare come magica eredità dentro di sé ogni volta che ne avrà desiderio.

Un tesoro che chiede solo di essere riscoperto.

E ora iniziamo il nostro cammino.






Immagine

* Tratta dall'archivio personale





Il potere della parola



                                                            
                                                        
                                          
Vi è un mezzo, che tutti usiamo giornalmente e lungo tutta la nostra vita, che consideriamo come la manifestazione prima di libertà, la parola. Eppure in questo uso quotidiano che facciamo non siamo abili a riconoscerne la grande capacità e potenza liminale, poiché le parole rappresentano un elemento di potere e sono a tutti gli effetti soglie. Sono semi ed aprono varchi verso chi o cosa siano pronunciate, veri e propri ponti energetici di cui abbiamo perso la capacità di riconoscere l’immensa valenza. Questa consapevolezza quando la riacquisiamo, ci fa impiegare questo veicolo con ponderazione, in quanto ne comprendiamo la facoltà costruttiva quanto distruttiva o trasformativa. E quindi capiamo anche che farne utilizzo in maniera (pseudo) libera non significa necessariamente esprimere contenuti autentici. Le parole manifestano molto di noi, di quella capacità che abbiamo di sentirle e di conoscerle per usarle in modo sincero. In tempi in cui è tutto un vociare se non un urlare di persone che si sovrappongono, come ridare valore ai vocaboli, ai concetti di cui si fanno portatori ed all’energia che emanano verso chi o cosa sono indirizzati? Nel silenzio. E’ un ossimoro, ne sono consapevole, la parola del silenzio. Ma se vogliamo esprimere qualcosa di davvero nostro, dobbiamo essere ascoltatrici ed ascoltatori dei nostri dialoghi, osservare le nostre idee, attraverso quali espressioni siamo abituati ad esprimerle ed impararne a riconoscere la capacità evocativa che hanno su di noi, prima che esternamente. Poiché in primo luogo di quello si tratta, delle parole che danno voce, ma dobbiamo imparare a domandarci quanto quella voce sia davvero nostra e quanto invece ci prestiamo ad essere contenitori di altro che spesso mi domando quanto ci appartenga, se non perché ci è stato trasmesso o perché manifesta solo un’avversione a quanto ci è stato insegnato. E ciò che per significato sembra opposto ancora una volta crea l’opportunità di essere contiguo, vicino, in quel paradosso che vede negli opposti possibili complementari. Quando poniamo attenzione alla parola capiamo che il suo valore è nella nostra lucidità nel suo utilizzo. La capacità creativa o comunque trasformativa del nostro vocabolario è direttamente proporzionale alla conoscenza che abbiamo dei termini non solo da un punto di vista del significato ma anche e soprattutto per come risuonano in noi per vibrazione. Riconoscerne la vibrazione significa andare ad agire sulla propria realtà, non solo ripetendo meccanicamente dei vocaboli ma plasmandola, questo si verifica anche nelle ritualità di qualsiasi Tradizione si parli, la parola crea, apre, accoglie, scambia, muta, sigilla, e continua a risuonare sul nostro piano fisico tanto quanto sui piani sottili. Questo è il tempo dei copia/incolla, degli aforismi più diversi associati ai personaggi più impensabili, che magari non esprimerebbero o non avrebbero mai espresso certi concetti, condivisioni che vogliono essere una manifestazione di espressione propria, ma che usati in quantità rischiano solo di rendere sterile la nostra capacità espressiva. Gli aforismi che girano in rete sono attribuiti  principalmente a personalità spirituali, scrittrici, poeti, filosofi, c’è bisogno perché abbiano lustro di associarli a nomi noti, e questo da la misura di quanto, spesso ciò che viene manifestato, non ci si domanda quanto sia nostro ma quanto consenso possa ottenere. E’ lì che si perde il valore della parola, delle proprie idee e delle proprie profondità. Se condividere un concetto, un’opinione può essere interessante, farsi assorbire da una sorta di frenesia da risposta o da commento rischia di svuotare il mezzo del suo vero significato. Parimenti ho la sensazione spesso che volersi esprimere su tutto, corrisponda all’esprimersi su nulla, o meglio non permetta di manifestare qualcosa di genuino. Penso così alla parola come condensatore e come convogliatore, come spirale e come albero, due aspetti che la fanno ‘respirare’creando così quello scambio fluido che diventa non solo confronto e reciprocità ma alimento dell’anima verso cui genera e si espande e da cui trae ispirazione vitale. I lemmi diventano così via d’esplorazione che si affacciano sul potere magico delle stesse parole. Fare uso consapevole del vocabolario, significa avere spazio per accogliere ed al contempo innestarsi sulla capacità altrui di accoglienza, creare cioè l’approccio alla trasformazione esteriore ma soprattutto interiore che la parola porta con sé. La scrittrice Barbara Malaisi, nel suo ‘La magia delle parole – percorsi di etimologia evolutiva’ [1],  sottolinea come in Inglese la parola silent, sia l’anagramma di listen, e come tra le varie etimologie della parola silenzio, una la riconduca alla radice indoeuropea sl legare , che ritroviamo anche nel sanscrito sinomi-lego e nello slavo silo-laccio. Questo suffraga quanto detto più sopra, rispetto alla necessità del silenzio per creare un ascolto di noi stessi e quindi un legame con ciò che appartiene e che ci possa permettere di usare parole in modo efficace, che rappresentino nella maniera più aderente possibile ciò che vogliamo comunicare. Assomigliare alle parole che si dicono e comprenderne prima il vero significato e valenza può essere uno dei mezzi migliori per dare continuità e valore ai nostri pensieri oltre che per creare relazioni autentiche con sé stessi prima e con gli altri poi.



                                                                



Note:


[1] Pag. 27 opera citata











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*Tratte dal web

Bibliografia

*Barbara Malaisi – La magia delle parole. Percorsi di etimologia evolutiva - Ati  Editore, 2016

martedì 7 novembre 2017

Dall'Oscurità di Novembre e Dicembre alla Scintilla del Nuovo che verrà




                                                          

Questa riflessione nasce con la prima notte di neve, in un novembre che ci ha visti senza luce per ore. Avvolti da un drappo di nebbia e da un bianco manto, la percezione dell’oscurità della stagione in corso è amplificata dal grigio latteo, che fa perdere orizzonti e confini. Ed è guardando in uno spazio che sembra restringere lo sguardo esteriore e nel quale pare smarrirsi quello interiore, che ritrovo profondità. 

Questa stagione, che sfronda il non necessario e riporta all’essenzialità, mi ha fatto scaturire un pensiero fondamentale: non puoi manifestare esteriormente ciò con cui non riesci ad entrare pienamente in contatto interiormente. Gli aspetti che appaiono agli estremi sono, eppure, contigui nella Vita: Nascita e Morte sorgono e tornano nel buio.    

Nessuna stagione dell’anno, come questa, ci permette di fare esperienza arcana di noi stessi, di confrontarci con i nostri timori e incertezze, e con quelle parti nascoste, spesso intenzionalmente trascurate o non amate. Ma anche di comprenderle o, almeno, osservarle e riscoprire le infinite potenzialità che celano, nel silenzio della dissoluzione. Perché questo Tempo ci parla proprio di questo: di ciò che, lasciato andare, creerà spazio per qualcosa di nuovo, e soprattutto inaspettato. 

Il tema della Morte, nell'immaginario collettivo, sembra sempre così ostile alla Vita stessa che finisce per esserne svilito il valore, trascurandolo o allontanandolo. La Morte viene vissuta tendenzialmente solo nei giorni dedicati ai defunti, si esaurisce in un più o meno breve ricordo dei trapassati, in una visita al cimitero o nell'adempimento di tradizioni che sanno più di pura formalità che di autentico significato. Eppure, in molte culture del mondo, il tempo dell’Ombra era, sin dagli Antichi, riconosciuto per le sue qualità catartiche e veniva celebrato e onorato.
Come Samhuinn unisce i due Mondi assottigliando i veli fra essi, così il Tempo che segue — quello che per i Celti corrispondeva all’inizio dell’inverno — rappresenta un momento di pausa, un tempo in cui abbiamo l’opportunità di scoprire il vero che fa parte dell’esistenza di ognuno di noi. Samhuinn costituisce sia la fine che l’inizio, rammentandoci che la Vita, in Natura, sia essa umana, animale o minerale, inizia nell’oscurità. Esaltare solo la Luce, che alimenta la Vita e ne permette la crescita, significa rendere monca quell’esistenza che spesso diciamo di amare. 

Viviamo in un’epoca in cui ci definiamo molto liberi, ma i cliché a cui siamo chiamati ad adeguarci ci impongono di apparire in un certo modo, e spesso di uniformarci a un'idea piuttosto che a un'altra. Se seguire una linea o un filone può anche risultare interessante, credo che all’interno di esso sia sempre utile mantenere una propria indipendenza di pensiero. E questa indipendenza è direttamente proporzionale all’autenticità che ognuno scopre in sé stesso, anche confrontandosi con la propria Oscurità. 

In essa, il ricordo ci permette di riflettere, ma diventa anche seme del Nuovo. Per questo, mai come nel momento in cui siamo connessi agli Avi, alle nostre Radici, custodiamo il seme di ciò che verrà, divenendo parte di un presente importante e rigeneratore.

Ciclicità che si intersecano: senza la piena consapevolezza di una, non può esserci quella dell’altra. Nei secoli, il Tempo degli Antenati è stato trasformato in qualcosa di infelice, e si è confusa la solennità di un periodo con la tristezza. Se perdere qualcuno che non è più in corpo può essere doloroso, attaccarsi a quel dolore come unica sfaccettatura della Morte è qualcosa di innaturale.

Essendo nata il Giorno dei Morti, sin da bambina mi è sempre stata limitata l’opportunità di festeggiare il mio compleanno, se non strettamente in famiglia. Ricordo un unico compleanno in cui invitai due amichette: il vociare allegro dei nostri giochi fece irrompere mia madre nella stanza, invitandoci ad abbassare i toni, perché in quel giorno vi era tristezza e dunque si richiedeva silenzio. Avevo fra gli 8 e i 10 anni. Ricordo che, arrivata la sera, chiesi perché bisognava essere tristi: se coloro che non c’erano più ci avevano amati, non sarebbero forse stati felici di vedere la nostra gioia, soprattutto nel giorno che li ricordava? E se davvero era vero che chi ci lasciava non voleva vederci amareggiati, perché avremmo dovuto esserlo? 

Fui guardata stranamente per quel pensiero. Ma negli anni, tornando periodicamente nel paese delle mie origini paterne — dove oggi sono sepolti anche mio padre, i miei nonni e bisnonni — ho capito che quel mio pensiero era sentito anche da altri. Camminando fra le tombe, specialmente gli anziani ricordavano chi venivano a visitare, ma non c’era amarezza. C’era un’emozione toccante, certo, ma anche la gratitudine per essersi potuti incontrare, per aver vissuto insieme momenti del percorso della vita. 

Il cimitero diveniva così un luogo di ricordo e condivisione, senza quella necessità di tristezza che connotava gli stessi giorni nel mondo cittadino. Quella gente, nata fra la fine dell’800 e il primo trentennio del 1900, alla quale sentivo di assomigliare per pensiero, era profondamente legata alla terra, alle sue stagioni e al suo ciclico susseguirsi. Credo che fosse questo a fare la differenza fra chi era cresciuto con e nella Natura e chi, spostandosi in città o nascendo in un ambiente urbano, aveva perso la connessione con le stagionalità della Vita.

Negli ultimi anni, con mia madre — oggi vicina agli 80 anni e gravemente malata — abbiamo affrontato spesso il discorso del Buio rigeneratore e della sua naturalezza, che non deve essere percepita come avversità, sia chiaro. Quest’anno, per la prima volta, sentendomi parlare di come avrei apparecchiato la tavola e celebrato questo momento, mi ha chiesto di aiutarla a ricordare come “accogliere” i defunti. Così ha preparato la tavola anche lei. Lo ha fatto per tre sere, coinvolgendo anche mia sorella, che dalla sua casa ha agito in modo simile nelle notti dal 31 ottobre al 2 novembre. Questa scelta è nata dalla sua nuova consapevolezza di come tutte le stagioni abbiano un valore profondo. E questa, che rappresenta un passaggio importante e unico, probabilmente ancor di più.

Mi ha fatto molto riflettere osservare un tale cambiamento nel suo atteggiamento. Mi sono chiesta a cosa fosse legato, e la risposta che mi sono data è che, da qualche anno, mia madre è tornata a vivere vicino alla natura. Non è più distratta o disturbata dall’alienazione che spesso i grandi centri urbani offrono: la mancanza di spazi verdi, lo smog, l’aria irrespirabile. Inoltre, l’età e la necessità di rallentare le hanno permesso di osservare e di risentire una sorta di richiamo. 

La lentezza, fino alla stasi trasformativa, e infine alla scintilla del Nuovo, è ciò che connota il Tempo Oscuro dell’Anno. Scenderemo in esso fino al periodo del Solstizio d’Inverno. Ciò che coltiviamo come atteggiamento mentale, il più possibile scevro da dogmi e influenze esterne, ci permette di comprendere meglio gli equilibri che regolano la Vita. In questo modo, la stessa Oscurità perde quell’accezione di male a cui siamo generalmente abituati e assume una veste nuova: quella della Rigenerazione.

Nel nostro oscuro, nel nostro rallentare, nel nostro profondo, abbiamo grandi opportunità: prima di tutto, quella di metterci in ascolto. Pensatevi in una grotta: i vostri sensi si acuiscono e, in quell’acuirsi, sviluppano nuove percezioni e potenzialità. Confrontarsi con il proprio silenzio ci consente almeno di osservare le nostre paure e ciò che di esse proiettiamo sulle persone e sugli eventi della nostra vita. 

Solo nel silenzio ammantato di tinte fosche possiamo permettere alla nostra anima di attingere a nuove energie. Solo nel Buio possiamo incontrare il calderone di Ceridwen, lasciando che tutto ciò che è inutile venga fuso e rimescolato, per far scaturire ciò che sarà. 

Esclusivamente nel Silenzio e nelle profondità non luminose dell’anno possiamo consentire che il processo alchemico, dalla Morte alla Vita, abbia luogo, permettendo alla scintilla del rinnovamento di accendersi. Non si può fare esperienza consapevole del Tempo della Luce se non si vive altrettanto consapevolmente quello del Buio. E non si può fare questa esperienza attraverso le percezioni degli altri: essa ci richiama, ancora una volta, a vivere intensamente la capacità di lasciarsi andare e di essere accolti tra le radici della Madre, tra le radici della nostra stessa esistenza.

Solo così possiamo ridare completezza a visioni e atteggiamenti che, escludendo il Tempo del Freddo e dell’Ombra, ci impediscono di accedere a quell’Unicità fatta di aspetti complementari. Troppo spesso, invece, lasciamo che questa Unicità venga ridotta a una visione duale in cui costringiamo le nostre vite. Nelle profondità silenziose che solo l'Oscurità sa offrire, la Vita si prepara a germogliare.





Immagine

*Tratta dall'archivio personale. Prima nevicata della stagione avvenuta nella notte fra il 5 ed 6 novembre 2017

Sitografia

*cfr. Samhain, la Porta di Eternità di ciò che non è mai separato

https://ilblogdilujanta.blogspot.com/2016/10/samhain-la-porta-di-eternita-di-cio-che.html





sabato 28 ottobre 2017

La grotta non lontana da Kniepaß (St. Lorenzen)






Interno grotta delle Conturines, Gadertal – Val Badia (Bz)
Fonte provincia.bz.it



Leggenda rinarrata da Lujanta

Narra la storia,
di un luogo quasi inarrivabile, una grotta posta sul fianco di una ripida montagna, in cui, la popolazione sfidando disagio e paura, usava andare per ringraziare degli eventi della vita: una nascita, un nuovo cucciolo del gregge, campi rigogliosi di cereali, un ricco raccolto che avrebbe permesso alla comunità tutta, di vivere una stagione invernale non afflitta da carenze di cibo; ma anche di fronte ad una malattia, una gravidanza difficile, una stagione rigida che metteva a dura prova la sopravvivenza della popolazione. Sin da bambini, ci si recava, in quel luogo dove comunque tutti si sentivano accolti e protetti. La grotta simbolo della Dea Ambeth, era il luogo dove ognuno di loro, semplicemente riconosceva connessione, accoglienza e protezione. Ambeth, Regina della Terra e del Cielo che regolava i cicli, di vita-morte e rinascita, della Natura tutta, era molto amata, veniva celebrata ogni anno, su un pianoro in cima ad una collina chiamata Kniepaß, e questo dalla notte dei tempi, oggi, in quel luogo sorge una chiesetta dedicata a Santa Margherita.


Grotta delle Conturines, vista dall’esterno. Nel 1987, questa grotta fu oggetto di una scoperta sensazionale, da parte dell’albergatore ed escursionista Willy Costamoling. A 2800 mt. di altitudine l’uomo trovò i resti, di quelli che poi i paleontologi, scoprirono essere 60 orsi vissuti circa 50.000 anni fa, oltre a decine di leoni delle caverne. La scoperta è eccezionale, poiché questa sinora rimane l’unica traccia dell’orso delle caverne, un gigante, di tutta l’area dolomitica, denominato poi Ursus Ladinicus,. Foto Vito Zingerle





Nota:
La leggenda è una rivisitazione della brevissima, versione tratta da un volume di fine ‘800, di Johann Adolf Heyl, che è sviluppata su matrice cristiana, e dove si narra che la chiesa di St. Margarethen a Kniepaß  sia stata costruita in onore di Santa Margherita, di cui apparve il volto nella roccia di una grotta, posta in un luogo inarrivabile su una montagna. Da qui la rappresentazione del solo volto, invece che tutto il corpo della Santa, nel dipinto che troviamo sull’altare. Ho voluto così rinarrarla in chiave pre-cristiana, quando le grotte, come il drago o serpente, erano attributi del Culto della Dea Madre, simboli millenni dopo attribuiti a Santa Margherita d’Antiochia.



Bibliografia:
Johann Adolf Heyl, Volkssagen, Bräuche und Meinungen aus Tirol, Brixen 1897, Pag. 551