Questa
riflessione nasce con la prima notte di neve, in un novembre che ci
ha visti senza luce per ore. Avvolti da un drappo di nebbia e da un
bianco manto, la percezione dell’oscurità della stagione in corso
è amplificata dal grigio latteo, che fa perdere orizzonti e confini.
Ed è guardando in uno spazio che sembra restringere lo sguardo
esteriore e nel quale pare smarrirsi quello interiore, che ritrovo
profondità.
Questa
stagione, che sfronda il non necessario e riporta all’essenzialità,
mi ha fatto scaturire un pensiero fondamentale: non puoi manifestare
esteriormente ciò con cui non riesci ad entrare pienamente in
contatto interiormente. Gli aspetti che appaiono agli estremi sono,
eppure, contigui nella Vita: Nascita e Morte sorgono e tornano nel
buio.
Nessuna
stagione dell’anno, come questa, ci permette di fare esperienza
arcana di noi stessi, di confrontarci con i nostri timori e
incertezze, e con quelle parti nascoste, spesso intenzionalmente
trascurate o non amate. Ma anche di comprenderle o, almeno,
osservarle e riscoprire le infinite potenzialità che celano, nel
silenzio della dissoluzione. Perché questo Tempo ci parla proprio di
questo: di ciò che, lasciato andare, creerà spazio per qualcosa di
nuovo, e soprattutto inaspettato.
Il
tema della Morte, nell'immaginario collettivo, sembra sempre così
ostile alla Vita stessa che finisce per esserne svilito il valore,
trascurandolo o allontanandolo. La Morte viene vissuta
tendenzialmente solo nei giorni dedicati ai defunti, si esaurisce in
un più o meno breve ricordo dei trapassati, in una visita al
cimitero o nell'adempimento di tradizioni che sanno più di pura
formalità che di autentico significato. Eppure, in molte culture del
mondo, il tempo dell’Ombra era, sin dagli Antichi, riconosciuto per
le sue qualità catartiche e veniva celebrato e onorato.
Come
Samhuinn unisce i due Mondi assottigliando i veli fra essi, così il
Tempo che segue — quello che per i Celti corrispondeva all’inizio
dell’inverno — rappresenta un momento di pausa, un tempo in cui
abbiamo l’opportunità di scoprire il vero che fa parte
dell’esistenza di ognuno di noi. Samhuinn costituisce sia la fine
che l’inizio, rammentandoci che la Vita, in Natura, sia essa umana,
animale o minerale, inizia nell’oscurità. Esaltare solo la Luce,
che alimenta la Vita e ne permette la crescita, significa rendere
monca quell’esistenza che spesso diciamo di amare.
Viviamo
in un’epoca in cui ci definiamo molto liberi, ma i cliché a cui
siamo chiamati ad adeguarci ci impongono di apparire in un certo
modo, e spesso di uniformarci a un'idea piuttosto che a un'altra. Se
seguire una linea o un filone può anche risultare interessante,
credo che all’interno di esso sia sempre utile mantenere una
propria indipendenza di pensiero. E questa indipendenza è
direttamente proporzionale all’autenticità che ognuno scopre in sé
stesso, anche confrontandosi con la propria Oscurità.
In
essa, il ricordo ci permette di riflettere, ma diventa anche seme del
Nuovo. Per questo, mai come nel momento in cui siamo connessi agli
Avi, alle nostre Radici, custodiamo il seme di ciò che verrà,
divenendo parte di un presente importante e rigeneratore.
Ciclicità
che si intersecano: senza la piena consapevolezza di una, non può
esserci quella dell’altra. Nei secoli, il Tempo degli Antenati è
stato trasformato in qualcosa di infelice, e si è confusa la
solennità di un periodo con la tristezza. Se perdere qualcuno che
non è più in corpo può essere doloroso, attaccarsi a quel dolore
come unica sfaccettatura della Morte è qualcosa di innaturale.
Essendo
nata il Giorno dei Morti, sin da bambina mi è sempre stata limitata
l’opportunità di festeggiare il mio compleanno, se non
strettamente in famiglia. Ricordo un unico compleanno in cui invitai
due amichette: il vociare allegro dei nostri giochi fece irrompere
mia madre nella stanza, invitandoci ad abbassare i toni, perché in
quel giorno vi era tristezza e dunque si richiedeva silenzio. Avevo
fra gli 8 e i 10 anni. Ricordo che, arrivata la sera, chiesi perché
bisognava essere tristi: se coloro che non c’erano più ci avevano
amati, non sarebbero forse stati felici di vedere la nostra gioia,
soprattutto nel giorno che li ricordava? E se davvero era vero che
chi ci lasciava non voleva vederci amareggiati, perché avremmo
dovuto esserlo?
Fui
guardata stranamente per quel pensiero. Ma negli anni, tornando
periodicamente nel paese delle mie origini paterne — dove oggi sono
sepolti anche mio padre, i miei nonni e bisnonni — ho capito che
quel mio pensiero era sentito anche da altri. Camminando fra le
tombe, specialmente gli anziani ricordavano chi venivano a visitare,
ma non c’era amarezza. C’era un’emozione toccante, certo, ma
anche la gratitudine per essersi potuti incontrare, per aver vissuto
insieme momenti del percorso della vita.
Il
cimitero diveniva così un luogo di ricordo e condivisione, senza
quella necessità di tristezza che connotava gli stessi giorni nel
mondo cittadino. Quella gente, nata fra la fine dell’800 e il primo
trentennio del 1900, alla quale sentivo di assomigliare per pensiero,
era profondamente legata alla terra, alle sue stagioni e al suo
ciclico susseguirsi. Credo che fosse questo a fare la differenza fra
chi era cresciuto con e nella Natura e chi, spostandosi in città o
nascendo in un ambiente urbano, aveva perso la connessione con le
stagionalità della Vita.
Negli
ultimi anni, con mia madre — oggi vicina agli 80 anni e gravemente
malata — abbiamo affrontato spesso il discorso del Buio
rigeneratore e della sua naturalezza, che non deve essere percepita
come avversità, sia chiaro. Quest’anno, per la prima volta,
sentendomi parlare di come avrei apparecchiato la tavola e celebrato
questo momento, mi ha chiesto di aiutarla a ricordare come
“accogliere” i defunti. Così ha preparato la tavola anche lei.
Lo ha fatto per tre sere, coinvolgendo anche mia sorella, che dalla
sua casa ha agito in modo simile nelle notti dal 31 ottobre al 2
novembre. Questa scelta è nata dalla sua nuova consapevolezza di
come tutte le stagioni abbiano un valore profondo. E questa, che
rappresenta un passaggio importante e unico, probabilmente ancor di
più.
Mi
ha fatto molto riflettere osservare un tale cambiamento nel suo
atteggiamento. Mi sono chiesta a cosa fosse legato, e la risposta che
mi sono data è che, da qualche anno, mia madre è tornata a vivere
vicino alla natura. Non è più distratta o disturbata
dall’alienazione che spesso i grandi centri urbani offrono: la
mancanza di spazi verdi, lo smog, l’aria irrespirabile. Inoltre,
l’età e la necessità di rallentare le hanno permesso di osservare
e di risentire una sorta di richiamo.
La
lentezza, fino alla stasi trasformativa, e infine alla scintilla del
Nuovo, è ciò che connota il Tempo Oscuro dell’Anno. Scenderemo in
esso fino al periodo del Solstizio d’Inverno. Ciò che coltiviamo
come atteggiamento mentale, il più possibile scevro da dogmi e
influenze esterne, ci permette di comprendere meglio gli equilibri
che regolano la Vita. In questo modo, la stessa Oscurità perde
quell’accezione di male a cui siamo generalmente abituati e assume
una veste nuova: quella della Rigenerazione.
Nel
nostro oscuro, nel nostro rallentare, nel nostro profondo,
abbiamo grandi opportunità: prima di tutto, quella di metterci in
ascolto. Pensatevi in una grotta: i vostri sensi si acuiscono e, in
quell’acuirsi, sviluppano nuove percezioni e potenzialità.
Confrontarsi con il proprio silenzio ci consente almeno di osservare
le nostre paure e ciò che di esse proiettiamo sulle persone e sugli
eventi della nostra vita.
Solo nel silenzio ammantato di tinte fosche
possiamo permettere alla nostra anima di attingere a nuove energie.
Solo nel Buio possiamo incontrare il calderone di Ceridwen, lasciando
che tutto ciò che è inutile venga fuso e rimescolato, per far
scaturire ciò che sarà.
Esclusivamente nel Silenzio e nelle profondità non luminose dell’anno possiamo
consentire che il processo alchemico, dalla Morte alla Vita, abbia
luogo, permettendo alla scintilla del rinnovamento di accendersi. Non
si può fare esperienza consapevole del Tempo della Luce se non si
vive altrettanto consapevolmente quello del Buio. E non si può fare
questa esperienza attraverso le percezioni degli altri: essa ci
richiama, ancora una volta, a vivere intensamente la capacità di
lasciarsi andare e di essere accolti tra le radici della Madre, tra
le radici della nostra stessa esistenza.
Solo
così possiamo ridare completezza a visioni e atteggiamenti che,
escludendo il Tempo del Freddo e dell’Ombra, ci impediscono di
accedere a quell’Unicità fatta di aspetti complementari. Troppo
spesso, invece, lasciamo che questa Unicità venga ridotta a una
visione duale in cui costringiamo le nostre vite. Nelle profondità
silenziose che solo l'Oscurità sa offrire, la Vita si prepara a
germogliare.
*Tratta
dall'archivio personale. Prima
nevicata della stagione avvenuta nella notte fra il 5 ed 6 novembre
2017
Sitografia