Il
primo novembre rappresenta, a tutti gli effetti, uno spartiacque
all’interno del calendario agricolo. Termina un anno, completato il
tempo del raccolto, la terra entra in un profondo sonno, avvolta dal
silenzio della stagione fredda.
Secondo
il calendario cristiano cattolico, questa data introduce un periodo di
riflessione e memoria: il primo e il due novembre sono dedicati alla
celebrazione dei Santi e dei Morti. Ma queste ricorrenze affondano le
loro radici in un passato più remoto. Del resto, il “culto degli
antenati” rappresenta l’origine di ogni religione (Spencer 1877).
Lo stesso culto degli eroi deriverebbe dalla divinizzazione degli
antenati, e le Divinità trarrebbero origine da un processo affine.
Tra i Celti, infatti, questo momento dell’anno aveva un’importanza
centrale nella vita comunitaria: Samonios o Samhain — come oggi è
meglio conosciuto — rappresentava il Capodanno, una festa in cui si
rinnovava il legame profondo tra vivi e morti. Non esisteva una netta
demarcazione fra il mondo dei vivi e quello dei defunti, ed un morto
non era mai completamente morto, poiché morire non era lasciare la
vita ma solo mutare uno stato all’interno di essa. Le celebrazioni
iniziavano il 31 ottobre e si prolungavano per undici giorni, fino a
quello che oggi è noto come il giorno di San Martino. Con l’avvento
del Cristianesimo, molte di queste tradizioni furono assorbite e
rielaborate nel calendario liturgico.
La
Chiesa seguì diversi passi per giungere alla celebrazione che
conosciamo oggi. Nel VI secolo fu istituita una giornata dedicata
alla commemorazione dei martiri della Chiesa latina, fissata in
prossimità della Pasqua per richiamare il legame della sofferenza —
comune ai martiri e a Cristo — al tema della resurrezione.
Durante
il pontificato di Papa Bonifacio IV (608-615), questa celebrazione fu
spostata al 13 maggio. Solo due secoli più tardi, Gregorio IV,
pontefice dall’827 all’844, stabilì che la festa fosse celebrata
il primo novembre, sperando di portare un cambio di passo nel diffuso
“anno celtico”. Sebbene questa festa, dedicata a tutti i Santi,
esistesse già in alcune aree, con Gregorio IV fu estesa a tutta la
Chiesa Cattolica. Questa ricorrenza pur essendo rivolta ai Santi,
evoca già il ricordo dei Defunti.
La
prima celebrazione del Giorno dei Morti si attribuisce a Sant’Odilone
di Cluny, che il 2 novembre del 998 introdusse questa ricorrenza nel
monastero omonimo con l’intento di pregare per le anime dei
defunti, soprattutto per quelle che si trovavano in Purgatorio, in
modo da favorire il loro passaggio verso la salvezza eterna.
Tuttavia, secondo il teologo e scrittore Isidoro di Siviglia, le
origini di questa festa risalirebbero già alla prima metà del VII
secolo. La celebrazione fu poi ufficialmente istituita nel 1006 da
Papa Giovanni XVIII.
Oggi,
tra le montagne del Sudtirolo e nelle regioni germanofone, il Giorno
dei Morti è un’occasione per rinnovare il legame con coloro che
non ci sono più, attraverso tradizioni che coniugano fede, memoria e
comunità.
Il
Giorno dei Morti, o Commemorazione dei Defunti, è conosciuto in
Sudtirolo e nel mondo germanofono come Allerseelen,
che significa letteralmente “Tutte le Anime”. Questo momento
dell’anno rinnova una tradizione molto particolare: quella del "cero
commemorativo" per i defunti dell’ultimo anno. Fra queste montagne,
i cimiteri sono particolarmente curati, e il periodo dei Morti
esprime un forte senso di comunità.
Le
bacheche esterne alle chiese sono ornate con le foto di coloro che
hanno lasciato questo piano d’esistenza, decorate con foglie secche
o rametti di sorbo, e accompagnate da scritte che, con delicatezza e
profonda malinconia, esprimono il senso della morte all'interno della
vita. Tra queste si leggono frasi come: “Leise
weht ein Blatt vom Baum und nichts ist mehr so, wie es einmal
war”(‘Una
foglia cade piano dall’albero e nulla è più come prima’),
oppure “…und
bis wir uns wiedersehen, halte Gott Dich fest an seiner Hand”(‘…e
finché non ci rivedremo, possa Dio tenerti stretto nella sua mano).
In
questo giorno, gli altari delle chiese espongono un cero per ogni
defunto dell’anno passato, che al termine di una celebrazione viene
donato a figli o parenti per essere acceso sulla tomba.
Così,
puntuale, il 2 novembre mi recai all'appuntamento e, entrando, notai
subito dei piccoli ceri bianchi disposti in fila, di cui ignoravo la
funzione. Non c'erano molte persone, sparse tra i banchi della chiesa
barocca dedicata a Heiligen Margareth (Santa Margherita). La prima
cosa che mi colpì fu che l'intera liturgia era officiata al
femminile: furono donne a leggere le Scritture e a ricordare, mese
per mese, chi ci aveva lasciato, in un silenzio carico di malinconia
che rendeva ancor più intenso il senso della Morte.
Al
termine della celebrazione, mi avvicinai alla signora che mi aveva
invitata. Intanto osservavo come, man mano che i parenti dei defunti
si avvicinavano all'altare, venisse loro consegnato un piccolo cero
collocato in un semplice vasetto di vetro. Nessuna scritta, nessuna
immagine, solo un cero bianco, il cui stoppino, annerito, indicava
che era già stato acceso.
La
signora mi spiegò che quella piccola candela era stata accesa con la
fiamma del cero pasquale e che, secondo la tradizione, doveva essere
portata sulle tombe. Sebbene mia madre non fosse sepolta in questo
paese, anziché tornare subito a casa, seguii il piccolo corteo di
una decina di familiari che si dirigevano al cimitero; ero curiosa di
vedere di cosa si trattasse. Nel frattempo era calato il buio più
completo. Arrivati al cimitero, deserto a quell'ora, i familiari dei
defunti dell’anno – coloro che erano mancati tra il 2 novembre
dell'anno precedente e quello corrente – accesero il cero e lo
aggiunsero alle altre candele che qui illuminano quotidianamente le
tombe, raccogliendosi poi in preghiera. Nel periodo dei defunti,
queste luci si uniscono a composizioni di piante simboliche — come
l’abete, il melograno e il cardo selvatico — diffuse in tutta
l'area germanofona, dal Sudtirolo all'Austria e alla Germania. Con
il tempo, ho notato come la tradizione del “cero commemorativo”
si diversifichi da una chiesa all’altra. In alcune, i ceri
bianchi lasciano spazio a versioni più grandi, decorate con croci
dorate o colorate, con i nomi dei defunti e, talvolta, con scritte legate al
periodo, come preghiere o pensieri dedicati.
Le
usanze legate alla morte testimoniano il profondo legame tra vivi e
defunti, specialmente nel contesto sudtirolese, dove i cimiteri,
generalmente, sorgono intorno alla chiesa parrocchiale, la quale è
parte integrante del tessuto comunale e comunitario.
Questa
zona non si uniforma alle disposizioni dell’Editto di Saint-Cloud,
emanato da Napoleone Bonaparte nel 1804, che impose l’obbligo di
collocare i cimiteri fuori dalle mura comunali per ragioni
igienico-sanitarie, estendendo la norma dalla Francia ai territori
sotto il suo controllo. In Sudtirolo, invece, i cimiteri restano nei
centri abitati, intorno alle chiese, rappresentando una particolarità
storica e culturale che differenzia questa Provincia dal resto d’Italia.
La
particolare conformazione climatica e territoriale dell’area,
soprattutto nei piccoli centri e nelle zone di montagna, ha
contribuito a evitare problematiche sanitarie legate ai luoghi di
sepoltura, rendendo inutile uno spostamento forzato. Inoltre, in
questa Provincia come in Austria, Germania e Svizzera, separare i
cimiteri dalle chiese avrebbe significato rompere il legame tra i
defunti e la loro comunità, una scelta ritenuta inaccettabile. I
cimiteri, infatti, rappresentano un’estensione del rapporto tra
vivi e morti, un vincolo che li unisce come parti di una stessa
collettività.
Dopo
aver descritto questa tradizione legata al Tempo dei Morti, è
interessante riflettere su alcuni simbolismi più ampi in un’ottica
di tipo culturale. Da tempi antichissimi, infatti, il fuoco ha
ricoperto un ruolo centrale nei rituali e nelle credenze dei popoli, simboleggiando non solo la luce, ma anche la
purificazione, la trasformazione e la protezione.
Ogni
azione di tipo rituale, qualunque sia la sua matrice, racchiude una
serie di valenze che rivelano lo "stato" profondo delle
cose. Esaminiamo ora il termine, concentrandoci sui riti funerari da un punto di vista strettamente
antropologico, indipendente da collegamenti liturgico-religiosi, già introdotti in precedenza.
Un
rito è un insieme di comportamenti, parole, canti e oggetti
utilizzati o trattati in modo specifico — creati o distrutti —
che possiedono virtù intrinseche e producono effetti simbolici o
reali. Derivante dal latino ritum,
a sua volta di origine indoeuropea, con il doppio significato di
“cerimonia religiosa” e “costume, abitudine” (Zanichelli
2022). Come evidenziato dalla Treccani,
è semanticamente affine al greco ἀριθμός, termine con il
significato di numero, che richiama i concetti di ordine e
regolarità, elementi che ritroviamo nei riti come atti stabiliti e
ripetuti. In Sanscrito, il termine
ha una doppia valenza: indica sia “misurato” sia “ordine
cosmico”. Questo significato sia oggettivale che nominale, rimanda
a un “ordine” stabilito dalle Divinità, che funge da legge
universale per regolare il Mondo.
Da
tempi antichissimi, il fuoco ha rappresentato un simbolo universale,
associato a molteplici significati: purificazione, rigenerazione,
protezione e continuità. Elemento materiale e insieme simbolico,
funge da ponte tra mondi diversi, creando punti di connessione capaci
di generare trasformazioni. Questo simbolismo si riflette anche nella
tradizione cattolica locale del “cero commemorativo”, acceso con
la fiamma del cero pasquale. Questo gesto richiama la luce di Cristo
e il rinnovamento spirituale, ma riecheggia anche i fuochi rituali
arcaici diffusi tra le popolazioni europee, invocati per protezione
divina e trasformazione, aspetti cui accenniamo senza addentrarci
oltre in questa sede. Ogni
rito, in ogni epoca, ci ricorda che la nostra esistenza è
intrecciata in un ordine universale che connette il visibile e
l’invisibile. I "ceri commemorativi" non sono esclusivamente ricordo:
sono trasformazione, continuità e il filo che unisce in maniera
indissolubile noi e la nostra ascendenza. Il fuoco ci ricorda che la
memoria non appartiene solo al passato: è una fiamma viva che brucia
nel presente, unendo ciò che, solo all’apparenza, sembra distante
e separato. Ancora una volta unisce, creando un legame profondo tra
vivi e defunti, tra materia e spirito, tra umanità e divinità.
Immagini
* Tratte dall’archivio personale
Bibliografia
*Cortellazzo
Manlio e Zoli Paolo (a cura di), DELI
Dizionario Etimologico della Lingua Italiana,
Zanichelli 2022
*Dal
Lago Veneri Brunamaria, Alto Adige.
Terra di feste, riti e tradizioni, Giunti
2002
*Eliade
Mircea, Dizionario dei Riti,
Jaka Book 2020
* Eliade
Mircea – Couliano Ioan P. (a cura di), Dizionario
dei simboli, Jaka Book 2020
*Eliade
Mircea – Ries Julian, Dizionario
delle Feste, Jaka Book 2021
*Greger
Michael J., Brauch und Jahr,
Verlag Verein Schloss Trautenfels 2008
*Mangold
Guido – Griessmair Hans, Usi e costumi
del Sudtirolo, Athesia 2001
Sitografia
*cfr. Samhain, la Porta di Eternità di ciò che non è mai separato
https://ilblogdilujanta.blogspot.com/2016/10/samhain-la-porta-di-eternita-di-cio-che.html
*cfr. Dall'Oscurità di Novembre e Dicembre alla Scintilla del Nuovo che verrà
https://ilblogdilujanta.blogspot.com/2017/11/dalloscurita-di-novembre-e-dicembre.html
*Treccani.it