Vi è un mezzo, che
tutti usiamo giornalmente e lungo tutta la nostra vita, che consideriamo come
la manifestazione prima di libertà, la parola. Eppure in questo uso quotidiano
che facciamo non siamo abili a riconoscerne la grande capacità e potenza liminale,
poiché le parole rappresentano un elemento di potere e sono a tutti gli effetti
soglie. Sono semi ed aprono varchi verso chi o cosa siano pronunciate, veri e
propri ponti energetici di cui abbiamo perso la capacità di riconoscere
l’immensa valenza. Questa consapevolezza quando la riacquisiamo, ci fa
impiegare questo veicolo con ponderazione, in quanto ne comprendiamo la facoltà
costruttiva quanto distruttiva o trasformativa. E quindi capiamo anche che
farne utilizzo in maniera (pseudo) libera non significa necessariamente
esprimere contenuti autentici. Le parole manifestano molto di noi, di quella
capacità che abbiamo di sentirle e di conoscerle per usarle in modo sincero. In
tempi in cui è tutto un vociare se non un urlare di persone che si sovrappongono,
come ridare valore ai vocaboli, ai concetti di cui si fanno portatori ed
all’energia che emanano verso chi o cosa sono indirizzati? Nel silenzio. E’ un
ossimoro, ne sono consapevole, la parola del silenzio. Ma se vogliamo esprimere
qualcosa di davvero nostro, dobbiamo essere ascoltatrici ed ascoltatori dei
nostri dialoghi, osservare le nostre idee, attraverso quali espressioni siamo
abituati ad esprimerle ed impararne a riconoscere la capacità evocativa che
hanno su di noi, prima che esternamente. Poiché in primo luogo di quello si
tratta, delle parole che danno voce, ma dobbiamo imparare a domandarci quanto
quella voce sia davvero nostra e quanto invece ci prestiamo ad essere
contenitori di altro che spesso mi domando quanto ci appartenga, se non perché
ci è stato trasmesso o perché manifesta solo un’avversione a quanto ci è stato
insegnato. E ciò che per significato sembra opposto ancora una volta crea
l’opportunità di essere contiguo, vicino, in quel paradosso che vede negli
opposti possibili complementari. Quando poniamo attenzione alla parola capiamo
che il suo valore è nella nostra lucidità nel suo utilizzo. La capacità
creativa o comunque trasformativa del nostro vocabolario è direttamente
proporzionale alla conoscenza che abbiamo dei termini non solo da un punto di
vista del significato ma anche e soprattutto per come risuonano in noi per
vibrazione. Riconoscerne la vibrazione significa andare ad agire sulla propria
realtà, non solo ripetendo meccanicamente dei vocaboli ma plasmandola, questo
si verifica anche nelle ritualità di qualsiasi Tradizione si parli, la parola
crea, apre, accoglie, scambia, muta, sigilla, e continua a risuonare sul nostro
piano fisico tanto quanto sui piani sottili. Questo è il tempo dei
copia/incolla, degli aforismi più diversi associati ai personaggi più
impensabili, che magari non esprimerebbero o non avrebbero mai espresso certi concetti, condivisioni che vogliono essere una manifestazione di
espressione propria, ma che usati in quantità rischiano solo di rendere sterile
la nostra capacità espressiva. Gli aforismi che girano in rete sono
attribuiti principalmente a personalità
spirituali, scrittrici, poeti, filosofi, c’è bisogno perché abbiano lustro di
associarli a nomi noti, e questo da la misura di quanto, spesso ciò che viene manifestato, non ci si domanda quanto sia nostro ma quanto consenso possa
ottenere. E’ lì che si perde il valore della parola, delle proprie idee e delle
proprie profondità. Se condividere un concetto, un’opinione può essere
interessante, farsi assorbire da una sorta di frenesia da risposta o da
commento rischia di svuotare il mezzo del suo vero significato. Parimenti ho
la sensazione spesso che volersi esprimere su tutto, corrisponda all’esprimersi
su nulla, o meglio non permetta di manifestare qualcosa di genuino. Penso così
alla parola come condensatore e come convogliatore, come spirale e come albero,
due aspetti che la fanno ‘respirare’creando così quello scambio fluido che
diventa non solo confronto e reciprocità ma alimento dell’anima verso cui
genera e si espande e da cui trae ispirazione vitale. I lemmi diventano così
via d’esplorazione che si affacciano sul potere magico delle stesse parole.
Fare uso consapevole del vocabolario, significa avere spazio per accogliere ed
al contempo innestarsi sulla capacità altrui di accoglienza, creare cioè
l’approccio alla trasformazione esteriore ma soprattutto interiore che la
parola porta con sé. La scrittrice Barbara Malaisi, nel suo ‘La magia delle
parole – percorsi di etimologia evolutiva’ [1],
sottolinea come in Inglese la parola silent, sia l’anagramma di
listen, e come tra le varie etimologie della parola silenzio, una la
riconduca alla radice indoeuropea sl legare , che ritroviamo anche nel sanscrito sinomi-lego e nello slavo silo-laccio. Questo suffraga quanto detto più sopra, rispetto alla
necessità del silenzio per creare un ascolto di noi stessi e quindi un legame
con ciò che appartiene e che ci possa permettere di usare parole in modo
efficace, che rappresentino nella maniera più aderente possibile ciò che
vogliamo comunicare. Assomigliare alle parole che si dicono e comprenderne
prima il vero significato e valenza può essere uno dei mezzi migliori per dare
continuità e valore ai nostri pensieri oltre che per creare relazioni
autentiche con sé stessi prima e con gli altri poi.
Immagini
*Tratte dal web
Bibliografia
*Tratte dal web
Bibliografia
*Barbara Malaisi –
La magia delle parole. Percorsi di etimologia evolutiva - Ati Editore, 2016
Sono l'Autrice del libro citato e desidero ringraziarla per averlo inserito tra le sue interessanti riflessioni. Grazie davvero, un affettuoso saluto. Barbara Malaisi
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