Leggenda rinarrata da Lujanta
Si narra di un giovane contadino di Campitel(lo) di
Fassa, che quotidianamente andava a far fieno lungo i pendii dei propri terreni
in Val Duron. Durante una delle pause, dal duro lavoro, che lo portava a
tagliare erba e fiori profumati con cui le sue vacche si sarebbero nutrite, lo
sguardo si perse poco più in là, rapito dalla bellezza di una giovane
fanciulla, che insieme ad altre stava raccogliendo erbe odorose. Che belle che
erano quelle ragazze! Tutte dai lunghi capelli e dai corpi che trasparenti
rilucevano al sole! Il contadino capì che erano selvane (1) come erano chiamate
in quella zona. Lei, si voltò verso di lui e gli sorrise, per lui fu amore a prima vista, al punto di non volere nemmeno tornare a casa, nella speranza che
in quello stesso giorno lei tornasse a farsi vedere. Ma passarono i giorni e la
bella ragazza non si fece più vedere. Il contadino non si perse d’animo, aveva
deciso che avrebbe voluto sposarla e per sapere come fare a conquistarla si
rivolse ad una vecchia donna, una saggia del paese. L’anziana donna prese uno
dei suoi antichi manuali, il suo dito scarno iniziò a scorrere da una pagina
all’altra sino a che trovò ciò che cercava. “Dovrai prendere due buoi che
traineranno un carro, nasconderli dietro ad un masso ai limiti della tua
proprietà, e legarne le zampe, affinché non facciano rumore. Quando la ragazza
arriverà le getterai in testa la corona di grano che prenderai dalla Stube (2)
del tuo maso (3), e la calmerai con una pozione al papavero che avrai preparato
tu stesso. Ma bada bene, quando caricherai la ragazza sul tuo carro, i suoi
lunghi capelli, per nessun motivo dovranno toccare terra, altrimenti lei si
trasformerà e scomparirà. Invece se riuscirai a portarla a casa, lei sarà la
migliore moglie possibile, a meno che suo padre non la richiami a sé.” L’uomo
annuì, aveva compreso bene le indicazioni e si preparava a metterle in pratica.
Quando ebbe tutto pronto, si sedette attendendo che le selvane tornassero. Era
impaziente, e continuava a ripetere dentro di sé i passaggi che lo avrebbero
portato a condurre alla sua abitazione la ragazza. Dopo poco, scorse le
selvane! Erano ritornate! In un lampo, prese in braccio la ragazza, la caricò
sul carro, le mise in testa la corona di grano che aveva preso da casa e le
fece bere la pozione calmante di papavero e soprattutto raccolse i lunghi
capelli, affinché durante il viaggio non scomparisse dalla sua vita.
Passò il tempo, la ragazza divenuta donna, si era
innamorata dell’uomo, abituandosi alla sua nuova vita di moglie e madre. Ma era
amata non solo in famiglia. La comunità tutta la considerava una benedizione,
aiutava tutti , insegnava a filare il lino, come a seminare e raccogliere erbe
aromatiche e medicinali.
Ma un giorno, uno come tanti, si appoggiò al davanzale
della finestra un uccellino che le disse: ‘Sorella, nostro padre è morto’. La
Selvana, preparò le sue cose in fretta e furia, con la morte nel cuore, baciò
il marito ed i figli che non avrebbe più visto e scomparve lassù dove il
contadino, molti anni prima si era innamorato del suo sguardo e del suo
sorriso, lassù lungo i pendii della Val Duron.
Note: rinarrazione de ‘La Selvana del Mas Fosal’. A sua
volta il racconto è tratto da ‘Detti popolari’ di Ignaz Vinzenz Zingerle.
(1) Selvana o salvana
(2) La Stube (ted.) nella tradizione montana
sudtirolese ed austriaca ma anche tedesca è quella stanza della casa,
corrispondente al soggiorno-sala da pranzo. La caratteristica struttura,
generalmente posta a sud e completamente rivestita in legno, generalmente di
cirmolo, è dotata di una panca che corre lungo le pareti, a cui davanti sono
posizionati tavolo e sedie. Rappresentava nelle abitazioni specialmente antiche,
il luogo dove la famiglia si riuniva per i pasti, così come per passare le
serate o le giornate d’inverno e
svolgere le attività di tessitura e ricamatura, visto che nei mesi più caldi e
per la maggior parte delle giornate la vita si svolgeva all’esterno della casa.
Era l’unica stanza riscaldata dell’abitazione.
(3) Il
maso (ted. Bauernhof) è la tipica
abitazione di montagna dolomitica, la sua origine è celto-retica. Il nome trae origine dal latino 'mansus' che
definiva un appezzamento agricolo. E’ costituita da un’abitazione, da stalle
per gli animali e capanni a vario uso oltre a terreni e boschi intorno. Praticamente
una porzione di territorio che doveva permettere ad una famiglia di vivere fra
agricoltura di montagna e allevamento. Molte di queste abitazioni si tramandano
di generazione in generazione da secoli, grazie all’indivisibilità della
proprietà garantita da un istituto di tutela che rende il maso ‘chiuso’, una
legge di origine medievale che fa si che la struttura alla morte dell’ultimo
genitore venga ereditata dal figlio più vecchio, che dovrà agli eventuali fratelli e sorelle un
indennizzo proporzionale al valore dell’eredità stessa, che permette al
contempo il mantenimento non solo della tradizione contadina e familiare, ma
anche culturale. La normativa negli ultimi decenni è stata adeguata, anche le
donne, piuttosto che un coniuge superstite possono ricevere in eredità
esclusiva un maso.
Bibliografia
Nessun commento:
Posta un commento