Lettori fissi

domenica 26 novembre 2017

La selvana del maso di Campitel di Fassa

Immagine tratta dal web


Leggenda rinarrata da Lujanta


Si narra di un giovane contadino di Campitel(lo) di Fassa, che quotidianamente andava a far fieno lungo i pendii dei propri terreni in Val Duron. Durante una delle pause, dal duro lavoro, che lo portava a tagliare erba e fiori profumati con cui le sue vacche si sarebbero nutrite, lo sguardo si perse poco più in là, rapito dalla bellezza di una giovane fanciulla, che insieme ad altre stava raccogliendo erbe odorose. Che belle che erano quelle ragazze! Tutte dai lunghi capelli e dai corpi che trasparenti rilucevano al sole! Il contadino capì che erano selvane (1) come erano chiamate in quella zona. Lei, si voltò verso di lui e gli sorrise, per lui fu amore a prima vista, al punto di non volere nemmeno tornare a casa, nella speranza che in quello stesso giorno lei tornasse a farsi vedere. Ma passarono i giorni e la bella ragazza non si fece più vedere. Il contadino non si perse d’animo, aveva deciso che avrebbe voluto sposarla e per sapere come fare a conquistarla si rivolse ad una vecchia donna, una saggia del paese. L’anziana donna prese uno dei suoi antichi manuali, il suo dito scarno iniziò a scorrere da una pagina all’altra sino a che trovò ciò che cercava. “Dovrai prendere due buoi che traineranno un carro, nasconderli dietro ad un masso ai limiti della tua proprietà, e legarne le zampe, affinché non facciano rumore. Quando la ragazza arriverà le getterai in testa la corona di grano che prenderai dalla Stube (2) del tuo maso (3), e la calmerai con una pozione al papavero che avrai preparato tu stesso. Ma bada bene, quando caricherai la ragazza sul tuo carro, i suoi lunghi capelli, per nessun motivo dovranno toccare terra, altrimenti lei si trasformerà e scomparirà. Invece se riuscirai a portarla a casa, lei sarà la migliore moglie possibile, a meno che suo padre non la richiami a sé.” L’uomo annuì, aveva compreso bene le indicazioni e si preparava a metterle in pratica. Quando ebbe tutto pronto, si sedette attendendo che le selvane tornassero. Era impaziente, e continuava a ripetere dentro di sé i passaggi che lo avrebbero portato a condurre alla sua abitazione la ragazza. Dopo poco, scorse le selvane! Erano ritornate! In un lampo, prese in braccio la ragazza, la caricò sul carro, le mise in testa la corona di grano che aveva preso da casa e le fece bere la pozione calmante di papavero e soprattutto raccolse i lunghi capelli, affinché durante il viaggio non scomparisse dalla sua vita.
Passò il tempo, la ragazza divenuta donna, si era innamorata dell’uomo, abituandosi alla sua nuova vita di moglie e madre. Ma era amata non solo in famiglia. La comunità tutta la considerava una benedizione, aiutava tutti , insegnava a filare il lino, come a seminare e raccogliere erbe aromatiche e medicinali.
Ma un giorno, uno come tanti, si appoggiò al davanzale della finestra un uccellino che le disse: ‘Sorella, nostro padre è morto’. La Selvana, preparò le sue cose in fretta e furia, con la morte nel cuore, baciò il marito ed i figli che non avrebbe più visto e scomparve lassù dove il contadino, molti anni prima si era innamorato del suo sguardo e del suo sorriso, lassù lungo i pendii della Val Duron.

Note: rinarrazione de ‘La Selvana del Mas Fosal’. A sua volta il racconto è tratto da ‘Detti popolari’ di Ignaz Vinzenz Zingerle.

     (1)  Selvana o salvana 

(2) La Stube (ted.) nella tradizione montana sudtirolese ed austriaca ma anche tedesca è quella stanza della casa, corrispondente al soggiorno-sala da pranzo. La caratteristica struttura, generalmente posta a sud e completamente rivestita in legno, generalmente di cirmolo, è dotata di una panca che corre lungo le pareti, a cui davanti sono posizionati tavolo e sedie. Rappresentava nelle abitazioni specialmente antiche, il luogo dove la famiglia si riuniva per i pasti, così come per passare le serate o le giornate d’inverno  e svolgere le attività di tessitura e ricamatura, visto che nei mesi più caldi e per la maggior parte delle giornate la vita si svolgeva all’esterno della casa. Era l’unica stanza riscaldata dell’abitazione.

 (3) Il maso (ted. Bauernhof)  è la tipica abitazione di montagna dolomitica, la sua origine è celto-retica.  Il nome trae origine dal latino 'mansus' che definiva un appezzamento agricolo. E’ costituita da un’abitazione, da stalle per gli animali e capanni a vario uso oltre a terreni e boschi intorno. Praticamente una porzione di territorio che doveva permettere ad una famiglia di vivere fra agricoltura di montagna e allevamento. Molte di queste abitazioni si tramandano di generazione in generazione da secoli, grazie all’indivisibilità della proprietà garantita da un istituto di tutela che rende il maso ‘chiuso’, una legge di origine medievale che fa si che la struttura alla morte dell’ultimo genitore venga ereditata dal figlio più vecchio, che dovrà  agli eventuali fratelli e sorelle un indennizzo proporzionale al valore dell’eredità stessa, che permette al contempo il mantenimento non solo della tradizione contadina e familiare, ma anche culturale. La normativa negli ultimi decenni è stata adeguata, anche le donne, piuttosto che un coniuge superstite possono ricevere in eredità esclusiva un maso.



Bibliografia

*Bruna Maria Dal Lago, Elmar Locher - Leggende e racconti del Trentino Alto Adige, pag. 35 - Newton Compton 1983

Narrare per tramandare

                                                      
Immagine tratta dall’archivio personale


                                         Testo di Lujanta

Foschia bassa scende sul paese tutto, in una giornata che attende la neve. Fuori un silenzio surreale che sembra scandire i passi della Bianca Signora che tornerà nella notte. In casa solo il crepitio del fuoco ed il mio sguardo assorto nei miei mondi interiori, nei miei ‘Si narra di un tempo in cui…’. Nasce così il desiderio di ricordare nuovamente quello già raccontato da altri, grandi scrittori e scrittrici rendendo nuovamente fruibili queste storie. Racconti e leggende che sono arrivate sino a noi con la voglia di essere tramandati su un divano in una sera d’inverno, o nel fresco di un giardino d’estate, racconti da leggere ai bambini prima di addormentarsi, o da condividere fra adulti. Si anche fra adulti, perché oggi erroneamente si pensa alle storie ed al narrarle come un qualcosa legato esclusivamente all'infanzia, mentre nel mito, nella fiaba, nella leggenda, ci sono elementi che appartengono al non-tempo e quindi adatte a tutte le età. Nel racconto vi è appunto il potere del non-tempo, un luogo dell’animo a cavallo fra il prima ed il dopo, fra passato e futuro, che immobile accoglie chi ascolta, tramandando tradizioni, simboli, conoscenza. Il racconto leggendario, la fiaba, è varco, invita all’ascolto, rapisce per la sua semplicità e narra attraverso l’evocazione dei suoi simbolismi un dialogo con quella parte profonda dell’inconscio collettivo che si collega alle rappresentazioni mentali primarie dette archetipi. Gli antichi popoli connessi ai cicli della Natura, conoscevano bene questo Potere, e lo hanno consegnato di generazione in generazione, in una sera come questa di fronte al fuoco, prima di abbandonarsi al buio della notte. Molte storie sono state cambiate, nel lento, cadenzato ritmo del passaggio nei secoli, acquisendo mano a mano i caratteri religioso- culturali dell’epoca in cui sono state tramandate, fino ad arrivare alla nostra cultura che perdendo l’autentica connessione al ciclo delle stagioni, ha relegato spesso il racconto e la narrazione al gioco ed alla puerilità. I raccontastorie attuali invece narrano a tutti, piccoli e grandi, perché la capacità evocativa del racconto è lenitiva e guaritrice sia per chi narra che per chi ascolta, va oltre il limite del fuori e del dentro, agendo oltre lo spazio che sembra dividere e che invece diventa punto d’unione. Così l’antico Bardo, poeta e cantore antico quanto attuale, diventa qui nella Terra delle Dolomiti, colei o colui che narra delle creature leggendarie dei boschi, delle acque, delle grotte, figure dai nomi spesso locali se non dialettali. Di popoli leggendari, di luoghi antichi, di Divinità spesso poco conosciute divenute poi Sante e Santi vestiti di Luna e di Sole, l’uditore sarà condotto in mondi magici, su versanti di alte montagne, in giro per vallate e località, che una volta conosciuti, potrà ritrovare come eredità dentro di sé ogni volta volta che ne avrà desiderio. Un tesoro che chiede solo di essere riscoperto. Andiamo a cominciare…

Il potere della parola



                                                            
                                                        
                                          
Vi è un mezzo, che tutti usiamo giornalmente e lungo tutta la nostra vita, che consideriamo come la manifestazione prima di libertà, la parola. Eppure in questo uso quotidiano che facciamo non siamo abili a riconoscerne la grande capacità e potenza liminale, poiché le parole rappresentano un elemento di potere e sono a tutti gli effetti soglie. Sono semi ed aprono varchi verso chi o cosa siano pronunciate, veri e propri ponti energetici di cui abbiamo perso la capacità di riconoscere l’immensa valenza. Questa consapevolezza quando la riacquisiamo, ci fa impiegare questo veicolo con ponderazione, in quanto ne comprendiamo la facoltà costruttiva quanto distruttiva o trasformativa. E quindi capiamo anche che farne utilizzo in maniera (pseudo) libera non significa necessariamente esprimere contenuti autentici. Le parole manifestano molto di noi, di quella capacità che abbiamo di sentirle e di conoscerle per usarle in modo sincero. In tempi in cui è tutto un vociare se non un urlare di persone che si sovrappongono, come ridare valore ai vocaboli, ai concetti di cui si fanno portatori ed all’energia che emanano verso chi o cosa sono indirizzati? Nel silenzio. E’ un ossimoro, ne sono consapevole, la parola del silenzio. Ma se vogliamo esprimere qualcosa di davvero nostro, dobbiamo essere ascoltatrici ed ascoltatori dei nostri dialoghi, osservare le nostre idee, attraverso quali espressioni siamo abituati ad esprimerle ed impararne a riconoscere la capacità evocativa che hanno su di noi, prima che esternamente. Poiché in primo luogo di quello si tratta, delle parole che danno voce, ma dobbiamo imparare a domandarci quanto quella voce sia davvero nostra e quanto invece ci prestiamo ad essere contenitori di altro che spesso mi domando quanto ci appartenga, se non perché ci è stato trasmesso o perché manifesta solo un’avversione a quanto ci è stato insegnato. E ciò che per significato sembra opposto ancora una volta crea l’opportunità di essere contiguo, vicino, in quel paradosso che vede negli opposti possibili complementari. Quando poniamo attenzione alla parola capiamo che il suo valore è nella nostra lucidità nel suo utilizzo. La capacità creativa o comunque trasformativa del nostro vocabolario è direttamente proporzionale alla conoscenza che abbiamo dei termini non solo da un punto di vista del significato ma anche e soprattutto per come risuonano in noi per vibrazione. Riconoscerne la vibrazione significa andare ad agire sulla propria realtà, non solo ripetendo meccanicamente dei vocaboli ma plasmandola, questo si verifica anche nelle ritualità di qualsiasi Tradizione si parli, la parola crea, apre, accoglie, scambia, muta, sigilla, e continua a risuonare sul nostro piano fisico tanto quanto sui piani sottili. Questo è il tempo dei copia/incolla, degli aforismi più diversi associati ai personaggi più impensabili, che magari non esprimerebbero o non avrebbero mai espresso certi concetti, condivisioni che vogliono essere una manifestazione di espressione propria, ma che usati in quantità rischiano solo di rendere sterile la nostra capacità espressiva. Gli aforismi che girano in rete sono attribuiti  principalmente a personalità spirituali, scrittrici, poeti, filosofi, c’è bisogno perché abbiano lustro di associarli a nomi noti, e questo da la misura di quanto, spesso ciò che viene manifestato, non ci si domanda quanto sia nostro ma quanto consenso possa ottenere. E’ lì che si perde il valore della parola, delle proprie idee e delle proprie profondità. Se condividere un concetto, un’opinione può essere interessante, farsi assorbire da una sorta di frenesia da risposta o da commento rischia di svuotare il mezzo del suo vero significato. Parimenti ho la sensazione spesso che volersi esprimere su tutto, corrisponda all’esprimersi su nulla, o meglio non permetta di manifestare qualcosa di genuino. Penso così alla parola come condensatore e come convogliatore, come spirale e come albero, due aspetti che la fanno ‘respirare’creando così quello scambio fluido che diventa non solo confronto e reciprocità ma alimento dell’anima verso cui genera e si espande e da cui trae ispirazione vitale. I lemmi diventano così via d’esplorazione che si affacciano sul potere magico delle stesse parole. Fare uso consapevole del vocabolario, significa avere spazio per accogliere ed al contempo innestarsi sulla capacità altrui di accoglienza, creare cioè l’approccio alla trasformazione esteriore ma soprattutto interiore che la parola porta con sé. La scrittrice Barbara Malaisi, nel suo ‘La magia delle parole – percorsi di etimologia evolutiva’ [1],  sottolinea come in Inglese la parola silent, sia l’anagramma di listen, e come tra le varie etimologie della parola silenzio, una la riconduca alla radice indoeuropea sl legare , che ritroviamo anche nel sanscrito sinomi-lego e nello slavo silo-laccio. Questo suffraga quanto detto più sopra, rispetto alla necessità del silenzio per creare un ascolto di noi stessi e quindi un legame con ciò che appartiene e che ci possa permettere di usare parole in modo efficace, che rappresentino nella maniera più aderente possibile ciò che vogliamo comunicare. Assomigliare alle parole che si dicono e comprenderne prima il vero significato e valenza può essere uno dei mezzi migliori per dare continuità e valore ai nostri pensieri oltre che per creare relazioni autentiche con sé stessi prima e con gli altri poi.



                                                                



Note:


[1] Pag. 27 opera citata











Immagini

*Tratte dal web

Bibliografia

*Barbara Malaisi – La magia delle parole. Percorsi di etimologia evolutiva - Ati  Editore, 2016

martedì 7 novembre 2017

Dall'Oscurità di Novembre e Dicembre alla Scintilla del Nuovo che verrà



  Prima nevicata della stagione avvenuta nella notte fra il 5 ed 6 novembre 2017
Welsberg-Monguelfo, Pustertal-Val Pusteria (Bz) 

                                            
                                          Testo di Lujanta

Questa riflessione nasce con la prima notte di neve, in un novembre che ci ha visti senza luce già per ore, e dove, avvolti da un drappo di nebbia e da un bianco manto, la percezione del buio della stagione in corso è amplificata proprio dal grigio latteo che fa perdere orizzonti e confini. Ed è guardando in uno spazio che appare ridurre lo sguardo esteriore ed entro il quale sembra perdersi quello interiore, che ritrovo profondità. Questa stagione che sfronda il non necessario e riporta all’essenzialità, mi ha fatto scaturire un pensiero fondamentale: non puoi manifestare esteriormente, ciò con cui non riesci ad entrare appieno in contatto interiormente. Gli aspetti che appaiono agli estremi, sono eppur contigui della vita, nascita e morte, sorgono e tornano nel buio. Nessuna stagione dell’anno come questa, ci permette di fare esperienza arcana di noi stessi, di confrontarci con i nostri timori, incertezze, e con quelle parti nascoste, spesso intenzionalmente neglette o non amate ma anche di comprenderle o almeno osservarle e riscoprire le infinite potenzialità che celano, nel silenzio della disgregazione. Perché questo Tempo di questo ci parla, di ciò che lasciato andare, creerà spazio per qualcosa di nuovo e soprattutto inaspettato. E’ che il tema Morte, in verità, nell’immaginario collettivo, sembra sempre così ostile, alla Vita in sé, che se ne svilisce il valore, trascurandolo o allontanandolo. Lo si vive tendenzialmente nei giorni dedicati ai defunti, si esaurisce con un più o meno breve ricordo dei trapassati, una visita al cimitero, un adempiere a tradizioni che sanno più di pura formalità che altro, quando in tutto il mondo, il tempo del Buio, dagli Antichi che ne riconoscevano le qualità catartiche era celebrato ed onorato. Come Samhuinn unisce i due Mondi assottigliando i veli fra di essi, il Tempo che lo segue, quello che per i Celti corrispondeva all’inizio dell’inverno, rappresenta il tempo del fermarsi,  tempo in cui abbiamo l’opportunità di scoprire il vero che fa parte dell’esistenza di ognuno. Samhuinn costituisce la fine e l’inizio, ma ci rammenta proprio che la Vita della Natura, umana, animale e minerale inizia nel buio, ed esaltare solo la Luce che alimenta la Vita e ne permette la crescita è rendere monca quell’esistenza che diciamo spesso di amare. Viviamo un’epoca in cui ci definiamo molto liberi, ma i clichés a cui siamo richiamati ad adeguarci, ci impongono di apparire in un certo modo, ed anche di uniformarci ad un'idea, piuttosto che ad un' altra. Se seguire una linea, un filone può anche risultare interessante, all’interno di esso credo sia sempre utile mantenere una propria indipendenza di pensiero, e quell’indipendenza è direttamente proporzionale all’autenticità che ognuno scopre in sé, anche confrontandosi con la propria Oscurità. In essa il ricordo ci permette di riflettere, ma diventa anche seme del Nuovo, per quello in nessuno come nel momento in cui siamo connessi agli avi, alle nostre radici, custodiamo il seme di ciò che verrà, divenendo parte di un presente importante e rigeneratore. Ciclicità che si intersecano, senza la piena consapevolezza di una non vi è nemmeno la consapevolezza dell’altra.
Nei secoli, il Tempo degli Antenati, è stato reso un qualcosa di infelice, e si è scambiata la solennità di un periodo con la tristezza. Se perdere qualcuno che non è più nel corpo può essere doloroso, attaccarsi a quel dolore come unica sfaccettatura della morte è qualcosa di innaturale. Essendo nata il Giorno dei Morti, sin da bambina, mi è sempre stata limitata l’opportunità di festeggiare il mio compleanno, se non strettamente con la mia famiglia. Ne ricordo solo uno in cui invitai due amichette, ed il vociare allegro dei nostri giochi, fece irrompere mia madre nella mia stanza, che ci invitò ad abbassare i toni, in quanto in quel giorno vi era tristezza e quindi silenzio. Avevo fra gli 8 ed i 10 anni, ricordo solo che, quando arrivò sera, chiesi perché bisognava essere tristi, se coloro che non c’erano più ci avevano amati, sarebbero stati solo felici di vedere la nostra gioia, anche e soprattutto nel giorno che li ricordava, e se altrettanto vero era che chi ci lasciava non voleva vederci amareggiati, perché avremmo dovuto esserlo? Fui guardata stranamente per quel pensiero. Ma negli anni, ritornando periodicamente, nel paese delle mie origini paterne, dove oggi è anche sepolto mio padre, oltre ai miei nonni e bisnonni, ho capito che ciò che pensavo io lo pensavano anche altri. Camminando fra le tombe specialmente gli anziani, ricordavano chi andavano a trovare ma non c’era amarezza, c’era quell’emozione toccante, ma anche la gratitudine di essersi potuti incontrare, di aver potuto prendere parte a momenti del percorso della vita insieme; il cimitero diveniva così luogo di ricordo, condivisione, senza quella necessità di tristezza che connotava gli stessi giorni del mondo ‘cittadino’. Quella gente nata fra la fine dell’800 ed il primo trentennio del 1900 alla quale assomigliavo per pensiero era gente molto legata alla terra, alle sue stagioni, ed al suo ciclico susseguirsi, credo fosse quello che facesse la differenza fra chi era cresciuto con e nella Natura e chi invece spostandosi in città, o nascendoci, aveva perso la connessione con le stagionalità della Vita tutta.
Negli ultimi anni, con mia madre, lei vicina agli 80 oggi e gravemente malata, abbiamo affrontato spesso il discorso del Buio rigeneratore e della sua naturalezza, non avversità si badi bene. Devo dire che quest’anno per la prima volta, sentendomi parlare di come avrei apparecchiato la tavola, di come avrei celebrato questo momento, mi ha chiesto di aiutarla a ricordare come fare ad ‘accogliere’ i defunti. Così ha preparato la tavola anche lei, mangiando al mattino ciò che la notte era stato l’offerta del cibo dei Morti, lo ha fatto per tre sere, coinvolgendo anche mia sorella, che da casa sua ha agito similmente nelle notti dal 31 ottobre al 2 novembre. E questa scelta è nata dalla sua nuova osservazione di come tutte le stagioni abbiano un grande valore. Questa che rappresenta un importante e unico passaggio probabilmente ancor di più. Mi ha fatto molto riflettere questo, vedendo una tale variazione nell’atteggiamento, mi sono domandata a cosa fosse legato, e la risposta è stata che da qualche anno mia madre è tornata a vivere vicina alla natura, non più distratta o disturbata da tanta alienazione che i grandi centri spesso offrono in termini di mancanza di spazi verdi, smog ed aria irrespirabile, e proprio anche grazie all’età ed all’aver l’aver dovuto rallentare le ha permesso di osservare e di risentire una sorta di richiamo. La lentezza sino alla stasi trasformativa, sino alla scintilla del Nuovo è quello che connota il Tempo Oscuro dell’Anno. Scenderemo in esso sino al periodo del Solstizio d’Inverno. Ciò che coltiviamo come atteggiamento mentale, il più possibile scevro da dogmi ed infarciture esterne varie, permette anche la comprensione degli equilibri che regolano la Vita, ed allora  questa stessa Oscurità, perde quell’accezione di male, al quale in generale siamo abituati, e assume una veste nuova, quella della Rigenerazione. Nel nostro Buio, nel nostro rallentare, nel nostro profondo abbiamo grandi opportunità, quella di metterci in ascolto innanzitutto. Pensatevi in una grotta, i vostri sensi si acuiscono, ed in quell’acuirsi sviluppano nuove percezioni, nuove potenzialità. Il confrontarsi con il proprio silenzio, ci fa almeno osservare le nostre paure, e con ciò che di esse proiettiamo sulle persone e sugli eventi che viviamo. Solo nel silenzio ammantato di tinte fosche possiamo lasciare che la nostra anima attinga a nuove energie, solo nel Buio possiamo incontrare il calderone di Ceridwen e lasciare che tutto l’inutile sia fuso e rimescolato, a fare scaturire ciò che sarà. Solo nel silenzio e nelle profondità non luminose dell’anno possiamo permettere che il processo alchemico che va dalla Morte alla Vita possa avere luogo, che la scintilla di rinnovamento possa accendersi. Non si può fare consapevole esperienza del Tempo della Luce, se non facciamo esperienza consapevole di quello del Buio, e non si può fare nemmeno questa esperienza attraverso le sensazioni e le percezioni degli altri e questo ci richiama ancora una volta a vivere intensamente quella capacità di lasciarsi andare ed essere accolti fra le radici della Madre, fra le radici della nostra stessa esistenza. Solo così possiamo ridare completezza a visioni ed atteggiamenti che nell’esclusione del Tempo del freddo e dell’Oscurità, non ci permettono di accedere a quell'Unicità fatta di aspetti complementari che spesso invece vengono lasciati ad una visione duale nella quale costringiamo le nostre vite.