Questa è la storia di un’antica Valle che si snoda
lungo il sinuoso scorrere del Rio Tegnas, che nel suo fluire guarda al Monte
Agner ed alle Pale di San Lucano. Questa è la leggenda di una Valle che fu
conosciuta in un tempo remoto dagli abitanti di Taibon, come la Val Bissera,
per il grande numero di serpi che la abitavano, oltre a basilischi e rettili di
varia natura e che tenevano lontano chiunque volesse mettere radici in quel
luogo, che oggi è chiamato con il nome di Valle di San Lucano.[1]
Solo i più impavidi decidevano nonostante la torbida
fama che la contraddistingueva di attraversarla per arrivare agli alpeggi più
alti, oppure per fermarsi nel fondovalle per lavorare nelle fornaci [2].
Nei discorsi degli abitanti di Taibon però c’era sempre
il timore, c’era sempre quella ritrosia a pensare di costruire case in quella
conca, fra le loro parole si agitava sempre e solo la paura dei serpenti. E fu
proprio in uno di questi dialoghi che furono ascoltati da un viandante. Un tipo
strano, arrivato chissà da dove, abbigliato in modo singolare. Sicuramente il
forestiero dava nell’occhio, non solo per i suoi abiti stravaganti ma anche per
i modi che ne definivano l’originalità. Non era la prima volta che arrivava a
Taibon, nessuno ne conosceva il nome, ma tutti sapevano chi fosse, e più di uno
in paese aveva avuto modo di ricevere i suoi consigli e verificare sulla
propria pelle l’arte della guarigione che lui sapeva esercitare. Si, perché lui
sapeva guarire vari malanni; tirava fuori da una sacca consunta dal tempo,
delle erbe che ogni volta che utilizzate, portavano sollievo al malato o alla
malata di turno, oltre che agli animali.
Si imbatté così in quel dialogo, era impossibile non
prestare l’orecchio a quella storia di così tante bisce che terrorizzavano
chiunque le osasse semplicemente nominare, rendendo la Valle quasi
inaccessibile.
Decise quindi di dire la sua, e propose ai valligiani,
anche in questo caso, il suo aiuto per risolvere un problema che si protraeva
da un tempo di cui nessuno ricordava l’inizio. Chiese solo una conferma, che
fra le bisce che abitavano la Valle non vi fosse quella bianca gigante.
Gli abitanti si guardarono l’un l’altro, ma nessuno
aveva mai sentito parlare della Grande
Biscia Bianca, gli garantirono quindi
che poteva essere sicuro e che loro lo avrebbero aiutato nel suo operato.
Il forestiero invitò quindi la popolazione a creare una
grande calchera al centro della valle e di riempirla di così tanta legna che potesse
ardere per lungo tempo. Al resto ci avrebbe pensato lui e si accomiatò.
Gli uomini del villaggio iniziarono a tagliare un gran
numero di faggi ed abeti, raccolsero pietre per creare il fondo della fornace,
quando tutto fu pronto, accesero il fuoco che arse per tre giorni e tre notti,
illuminando sin da lontano il paesaggio.
Arrivò quindi il forestiero, in quei giorni era rimasto
nel villaggio, ma non aveva disturbato in nessun modo la creazione della
calchera, anzi si era concentrato su quello che avrebbe fatto successivamente,
ed intanto da lontano nelle sue passeggiate ai limiti del bosco, aveva
accompagnato con lo sguardo l’alacre lavoro degli uomini intenti nella fatica
di scavare, tagliare, trasportare e sistemare il tutto.
Giunto vicino alla fornace scintillante di fuoco da tre
giorni, tirò fuori dalla sua sacca un piffero ed iniziò a suonarlo, non prima
di essersi messo al riparo sui rami di un abete, che lo nascondeva alla vista
di chiunque. Un ammaliante suono iniziò a diffondersi attraverso la foresta,
che improvvisamente era diventata muta, immobile, quasi tesa all’ascolto di
quella musica. Dopo pochi istanti iniziarono a comparire centinaia o forse
migliaia di serpenti di ogni dimensione, alcuni condotti dalle acque, altri
fuoriusciti da massi e rocce, altri ancora saltando da rami su cui erano a
riposare e come incantati da quel suono, si gettarono nel fuoco vivo, ad uno ad
uno, fra sibili di morte e fiamme che si levavano alte a riverberarsi sulle
pareti rocciose circostanti. Questo continuò per tutta la notte e sino
all’alba. Quando il giorno era oramai cominciato e non si vedevano più serpi in
giro, il cielo divenne plumbeo, l’atmosfera intorno si caricò di una strana
energia. Dagli alberi, strisciando il suo corpo dalle grandi dimensioni e con
fischi e sibili che nulla di buono lasciavano presagire, arrivò Lei, la Grande
Biscia Bianca. Il suo sguardo magnetico intercettò subito il forestiero fra i
rami , con le sue spire lo raggiunse, lo tirò giù e lo condusse con lei fra le
fiamme. Pur ipnotizzata da quel suono che aveva ascoltato per ore, non aveva
perso la lucidità per compiere quell’ultimo atto, in cui sarebbe perita lei ma
anche chi, aveva organizzato la distruzione sua e della sua Stirpe.
Note:
[1] L’Agordino o Val Cordevole, dal torrente che scorre
nel fondovalle, è una valle dolomitica veneta, costellata da imponenti cime
come la Marmolada (3342 m.), il Monte Civetta (3220 m.), il Gruppo del Sella
(3152 m.) l’Agner (2872 m.) ,il Monte Tamer (2547 m.), ed I Monti del Sole (2248
m.). Queste cime svettano a cornice delle sue valli laterali che sono: Val del
Biois, Val Pettorina, Val Fiorentina e la Valle di San Lucano con le sue
omonime Pale, la cui cima più alta è il Monte San Lucano (2406 m.).
[2] La calchera fu un antico tipo di fornace che si
usava per la cottura della calce.
Il racconto appartiene alla Tradizione veneta come
riporto dalle fonti citate, che ricalca un cliché narrativo che si ritrova
uguale identico in molte aree non solo dolomitiche ed alpine ma anche europee.
Così, sebbene le storie si sviluppino con lievi declinazioni legate alla
regione in cui vengono raccontate, condividono un filone di base intorno al
quale, si snoda una linearità narrativa che in maniera lapalissiana unisce il
racconto in una radice comune che la diffuse a chilometri di distanza.
La fine del racconto in tutti i casi, vede la
sparizione di tutte le bisce, ma il forestiero che doveva liberare la valle, in
effetti diviene vittima anch’esso del rogo appiccato per distruggerle. Come in
un meccanismo simile alla legge del contrappasso, anche il distruttore perisce
fra le stesse fiamme che hanno sterminato l’intera popolazione di serpenti. E
quando pensa che tutto sia finito, è con la Madre delle bisce, prima a nascere
ed ultima a perire, che finisce anche lui nella trappola che egli stesso aveva
pensato di usare come liberazione.
Si unisce così ai valligiani, che oramai hanno
dimenticato da molto tempo il significato della Dea Serpente, e della quale non
riconoscendo gli aspetti forieri di fortuna e benessere, pensano solo a
distruggere ciò che non hanno compreso. La non comprensione, ha distrutto così
la Stirpe dei Serpenti ma vede la fine anche il suo artefice, che in senso
figurato, pensando di estinguere ciò che crede di riconoscere come un problema,
in effetti, getta nel fuoco dell’ignoranza anche la sua vita e quella di tutti
coloro che verranno, che non sapranno più realizzare il valore della Saggezza
Serpentina.
Immagine
*Valledisanlucano.it
Bibliografia
*Tersilla Gatto Chanu, Saghe e leggende delle Alpi,
Newton &Compton Editori 2011
*Dino Dibona, Guida insolita ai misteri, ai segreti,
alle leggende e alle curiosità delle Dolomiti, Newton&Compton Editori 2001
*Bruna
Maria Dal Lago Fiabe del Trentino Alto Adige, Mondadori 1997
Sitografia
*Valle Di San Lucano – Taibon Dolomiti valledisanlucano.it
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