Leggenda
rinarrata da Lujanta
Era già caduta la prima neve di agosto, come succedeva
a fine estate, e con la neve era arrivata anche la nebbia. Miola stava
scendendo verso il villaggio di Pian, in Alta Val di Fassa, all’imbocco della
Val Duron. Dal villaggio posto su una collina si vedevano i pendii boschivi
del Monte Rodella, ma in mezzo a quella nebbia che velava il paesaggio e le
direzioni e che si era diradata per un solo istante, la giovane ragazza capì
presto di essersi smarrita e di essere finita sulle Crepe de Pedonel, dirupo
scosceso e pericoloso. Cercò aiuto gridando con tutte le sue forze, rivolta
verso la valle, ma non udì nessuna risposta, mentre la nebbia si infittiva
sempre più. Quando ormai pervasa dalla paura, stava abbandonando ogni speranza
di essere soccorsa, si sentì prendere la mano. Una Vivena (1) era arrivata in
suo aiuto. La condusse alla sua grotta, un luogo accogliente dove Miola si
sentì subito a casa. Parlando amichevolmente ad un certo punto la Vivena,
chiese a Miola se avesse un fidanzato. La ragazza si incupì in viso, raccontò
che era innamorata di un uomo, che però la sua famiglia non vedeva di buon
occhio poichè vedovo e già padre di una fanciulla, alla quale lei teneva molto
e di cui si sarebbe presa cura molto volentieri. Ma i genitori di Miola
temevano che la figura di una matrigna nei confronti di una figliastra avrebbe
presto minato i rapporti con l’uomo che lei amava. La chiacchierata si concluse
e la Vivena e Miola andarono a dormire. La fanciulla quella notte fece uno
strano sogno. Era in un luogo dove il paesaggio innevato era illuminato dalla
luna, dal folto del bosco di abeti, una donna con un fazzoletto bianco legato
intorno al collo, le stava andando incontro. Miola aveva paura, la donna le
chiese se sarebbe stata in grado di mantenere una promessa, Miola rispose
affermativamente, senza alcuna esitazione. La donna aggiunse che se negli anni
avesse avuto dei dubbi, una mano di morto le avrebbe indicato come agire.
Mentre le diceva questa frase le tese la mano che al contatto Miola sentì
gelida. Il mattino dopo, sveglie di buon’ora la Vivena e Miola si incamminarono
sulla strada di ritorno della ragazza. Mentre la Vivena la accompagnava sino al
punto in cui avrebbe dovuto proseguire da sola, Miola le raccontò il sogno, cosa
si erano dette lei e la dama del bosco e soprattutto parlò di quella mano
gelida che non avrebbe certo dimenticato. La Vivena le spiegò subito che la
donna del bosco non era altro che la moglie defunta dell’uomo che intendeva
sposare, e che il segno distintivo era dato dal fazzoletto di seta bianca, a
cui lei era molto affezionata, tanto che il marito glielo legò al collo prima
che la bara fosse chiusa. Miola iniziò ad agitarsi, capendo che la Vivena aveva
capito molto di più di quel sogno e le chiese tutto d’un fiato cosa intendesse
allora per promessa. La Vivena rispose : “Tu sposerai l’uomo che ami, da lui
avrai un figlio che talvolta non andrà d’accordo con la sorellastra, ma tu se
non vuoi avere problemi, devi sempre dare ragione alla ragazza, credi di poter
mantenere questa promessa?” E le chiese di giurare. Miola giurò, con tutto
l’amore che aveva nel cuore, che avrebbe amato quella ragazza come e anche più
del figlio nato dal suo grembo, ignara di ciò che avrebbe vissuto a causa di
quella scelta. Passarono sette anni, Miola aveva sposato l’uomo di cui era
innamorata e dalla loro unione era nato Tita, un bambino che Mèina la
sorellastra oramai tredicenne, amava, ma con il quale ogni tanto litigava, come
è normale fra fratelli. Ma Miola, non
sgridava mai Mèina, e quando c’era tensione fra i due fratelli, cercava di
portare pace fra di loro, giustificando sempre l’agire della ragazza, al punto
che il marito la riprese aspramente dicendole che non sapeva essere una buona
madre, che Mèina stava crescendo viziata ed egoista. Miola ricordava l’impegno che aveva
preso e quindi scusava sempre ogni azione della figliastra, anche il giorno in
cui lasciò Tita in custodia a Mèina mentre il bambino doveva girare la polenta
nel paiolo affinché cuocesse. Ma Mèina si era attardata sulla porta di casa a
parlare con una sua amica ed all’improvviso un urlo la riportò a Tita. Il
bambino si era bruciato con della polenta fuoriuscita dal paiolo ed aveva
iniziato a piangere, Mèina lo soccorse bagnando la manina scottata, con acqua,
per lenire il bruciore. Il padre però che aveva visto la figlia sull’uscio a
chiacchierare, era talmente irato che Miola ancora una volta intervenne a
protezione della figliastra. Il marito di Miola trovava diseducativo
assecondare sempre la ragazza, non capiva proprio perché Miola trovasse sempre
il modo di scagionarla anche di fronte all’evidenza. Erano le ultime giornate
d’inverno, una notte Miola si svegliò tre volte in preda ad un sogno in cui si
presagiva un pericolo in arrivo, la Vivena era comparsa rammentandole di tenere
fede al suo impegno se non avesse voluto perdere Tita. Il marito che anche non
riusciva a dormire a causa di una storta presa il giorno precedente, tagliando
legna, e che gli procurava un gran dolore, la sentì rigirarsi nervosamente nel
letto e così lei decise di parlargli delle sue ansie, ma lui non diede troppo
peso alla sua confessione. Sorse un nuovo mattino, ed il sole alto in cielo
portava una buona giornata, fredda ma solatia, ma il marito di Miola non
riusciva ad alzarsi, la caviglia troppo dolente, non gli permetteva proprio di
mettersi in piedi, eppure aveva bisogno che il carico di legna tagliata il
giorno precedente fosse portato a casa dal bosco, così invitò la moglie a
mandare Mèina a prenderlo in Val Duron. Miola affidò alla figliastra il compito
di recuperare la legna e poi uscì per andare al torrente. Quando tornò a casa,
non trovò Tita ad attenderla, e subito capì che era andato con Mèina. La
preoccupazione si impossessò presto della donna e non fece altro che crescere,
quando i due fratelli a mezzogiorno non furono di ritorno a casa. D’accordo con
il marito chiesero a due giovani del paese di andarli a recuperare. Nel
pomeriggio le condizioni meterologiche peggiorarono e Miola si rivolse ad un
vecchio taglialegna che le disse che
faceva troppo caldo, si erano staccate valanghe in mattinata in Val Duron e che
sarebbe rinevicato presto, si era visto, del resto, il fantasma di Ce-de-lù-
Capo di Lupo/l'Uomo Lupo (2), in giro. L’agitazione di
Miola aumentò nel momento in cui i due giovani che erano andati a cercare i
bambini, rientrarono e raccontarono che a causa delle valanghe che ostruivano
le strade, non erano riusciti nemmeno ad arrivare all’imbocco della valle.
Miola non attese un attimo di più, evidentemente turbata, disse al marito che
sarebbe andata lei, prese uno scialle ed il bastone e si incamminò. L’uomo che
non poteva accompagnarla, chiese allora almeno che si facesse accompagnare da
alcuni uomini del paese. E così di fretta e furia, sette compaesani si misero
alle spalle di Miola, in direzione della Val Duron. Arrivarono in zona che
era notte, fortuna che la luce della luna si rifletteva sulla neve ed
illuminava il paesaggio. Alla prima valanga, gli uomini si fermarono, mentre
Miola mossa dal suo intento a ritrovare i figli, riuscì ad aprirsi un varco, e
con lei solo cinque compagni di ricerca la seguirono. Alla seconda valanga, lei
riemerse, raccogliendo le forze e andò avanti. E dei cinque uomini, chi la
seguiva ancora era solo il fratello, ma alla terza valanga, anche lui rimase
indietro, Miola caparbiamente, si tirò fuori da neve e sassi, voltò la testa
all’indietro, ma era decisa ad andare avanti. Il fratello che aveva esaurito le
forze, la vide allontanarsi nel bagliore lunare. A seguire, caddero altre
valanghe e Miola scomparve. A rendere più tetra la scena in lontananza su un
pendio, l’immagine di Ce-dé-Lu che controllava il cammino della donna,
comparendo di tanto in tanto molto più in alto e lontano. Intanto gli uomini
del villaggio che avevano provato ad accompagnare Miola si erano ricongiunti,
pronti a tornare indietro alle loro abitazioni, con la tristezza che colmava i
loro cuori, perché per loro Miola era morta sotto un distacco di neve e pietre
di quelli che avevano potuto solo sentire per ultimi. Erano esperti e
coraggiosi, avevano anche capito però, quanto sarebbe stato grave voler
proseguire a tutti i costi, rischiando di perdere oltre la vita di Miola, anche
la loro. Invece non sapevano che nell’istante in cui la grande valanga si era
staccata dal pendio innevato Miola era già in salvo e continuava seppur sola la
sua ricerca nella valle, che diventando più ampia permetteva anche maggiore
sicurezza. E fu camminando lungo il torrente che scorse un fuoco intorno al
quale vi erano sedute quattro donne, erano le Cristanne (3). Si affrettò a
spiegare loro che i suoi figli si erano addentrati nella valle per non fare più
ritorno, con l’ansia di una madre che tenta di avvisare più gente possibile per
raccogliere informazioni utili. Ma le Cristanne erano già al corrente di tutta
la situazione e le risposero che era stato l’Om del la Jàcia - Uomo del
Ghiaccio a rapire i suoi figli, per portarli in cima alla montagna e
trasformarli con un incantesimo in pernici bianche, lasciandoli poi liberi.
Miola ascoltò con il cuore in gola, immaginava i suoi bambini, già volati via,
perduti per sempre. Le Cristanne percepirono il suo dolore e cercarono allora
di rincuorarla. “L’Uomo del Ghiaccio in generale non rapisce più di un figlio
per madre, strano che a te li abbia portati via entrambi! Sicuramente se sali e
gliene chiedi uno indietro ti accontenterà”, Miola annuì con la testa, avrebbe
avuto solo bisogno di poche indicazioni e avrebbe raggiunto il luogo in cui se
era fortunata avrebbe ancora trovato i suoi figli non ancora trasformati in
pernici. Una delle Cristanne le indicò “Il monte Aut ha cinque punte. Fra le
due punte più orientali c’è una gola ed è lì che abita l’Uomo del Ghiaccio.”
Miola ringraziò con tutta la riconoscenza che poteva quelle donne e riprese a
salire. La via era impervia ma nulla l’avrebbe ostacolata dall’arrivare in
cima, ed infatti vicina alla mezzanotte arrivò alla meta. Nel buio, rischiarato
solo da qualche stella l’Uomo del Ghiaccio lo sguardo perso nell’oscurità, appena
sentite le richieste di Miola si chiuse ancora di più nel suo mantello e scosse
la testa in segno di diniego. Ma quando Miola provò a spiegare che i bambini
rapiti erano due, trasalì e la sua chiusura si mutò in ascolto. Si alzò dalla
pietra su cui era seduto ed andò a prendere uno dei due figli, non chiedendo a
Miola chi avesse voluto indietro, perché per una madre un figlio doveva valere
l’altro, ma osservandone attentamente le reazioni. Improvvisamente Miola iniziò
a tremare al pensiero che l’Uomo del Ghiaccio le portasse Méina, e lui si
accorse di questa agitazione e pensò che la donna lo stesse ingannando. Quando avrebbe avuto davanti a sé i bambini, l’Uomo del
Ghiaccio sapeva che avrebbe usato un metodo infallibile per sapere chi fosse
davvero il figlio della donna, guardandone la testa. Entrò nell' ingresso della caverna suo rifugio, ma i bambini non c’erano, quella
sera erano andati sul monte Dociuril volando sopra la Val Dona. Ritornò fuori e
per mettere alla prova Miola le disse: “I tuoi figli sono stati trasformati
entrambi in pernici e sono volati via, ora li chiamo“. Così fece, emise un lungo
fischio e da lì a breve uno stormo di uccelli bianchi arrivò e si posò ai suoi
piedi trasformandosi in bambini. Sicuro che Miola nella scelta avrebbe rivelato
chi fosse il suo vero figlio, le offrì di portarsi a casa chi credeva. Lei con
la morte nel cuore, ricordò ancora una volta il suo impegno e scelse Méina, in
quell’esatto istante Tita si ritrasformò in pernice bianca e volò via. La scena
lasciò perplesso l’Uomo del Ghiaccio che pensò di aver sbagliato per la prima
volta, in quanto aveva pensato che solo uno fosse figlio della donna, e quello
era Tita. Intanto Miola recuperata Méina si affrettò a riprendere la strada del
ritorno, non c’era tempo da perdere, l’Uomo del Ghiaccio avrebbe potuto
cambiare idea, ed inoltre sin dai lontani ma visibili monti del Lagorai si
vedevano nubi minacciose che avrebbero portato altra neve. Entrambe scesero con
passo spedito, senza troppe parole quando in un bosco di pini cembri sotto il monte
Aut, intravidero una presenza evanescente, abbigliata di leggero vestito che
sinuoso si muoveva al vento, al collo un fazzoletto bianco. La donna le invitò
ad avvicinarsi, il suo sguardo era senza direzione, iniziò a parlare “Ti affidai mia figlia perché
doveva vivere solo 13 anni e non volevo li passasse senza una madre, tu sei
stata la migliore madre che io abbia potuto scegliere per lei, hai mantenuto la
promessa data senza mai venire meno, educandola ed amandola come avrei fatto io
e di questo ti ringrazio”. Miola capì subito, venne riportata al ricordo del
suo sogno nella grotta della Vivena di tanti anni prima, la presenza continuò:
“Scendendo incontrerai Ce-de- lù, i tredici anni sono passati e lui ti
attenderà per sbarrarti la strada, ma non temere io ti accompagnerò e ti sarò
accanto, cerca di arrivare a Fossaz prima dell’arrivo della tormenta”. Meina
nel frattempo non aveva mai smesso di rimanere aggrappata, alla sua seconda
madre, mossa da un tremore irrefrenabile, dalla paura di quella visione,
sebbene non avesse compreso il senso di ciò che era stato detto. La visione
scomparve e le due donne ripresero il cammino su un terreno impervio, reso
ancora più pericoloso da crepacci e dal rischio di valanghe. Ad un certo punto
videro in lontananza la figura di un uomo, vestito di abiti simili a stracci,
un cappello tondo in testa con tanto di piuma, ma calato così basso che non si
distingueva dove terminasse il capo ed iniziasse il collo. L’uomo
improvvisamente sparì. Il loro tragitto diventò pericoloso a causa di massi che
cadevano dall’alto rendendo il tracciato più difficile da percorrere. Alzarono
gli occhi per vedere da dove cadessero le pietre e rividero l’uomo, era lui che
gettava giù i massi, finalmente potevano scorgerne il volto, che non era umano,
ma quello di un lupo, era proprio Ce-de-lù, l’Uomo Lupo, l’Inesorabile. Miola
iniziò ad urlare di farle passare, ma più lei urlava più lui le diceva che non
le avrebbe fatte proseguire, lui sapeva che Mèina non era la figlia di Miola e
nonostante le rassicurazione della ragazza alle sue domande, d’improvviso la
trasformò nuovamente in una pernice bianca e Miola la vide scomparire nel
cielo. Era impietrita, ma in quell’istante ricordò le parole della donna
evanescente incontrata poco prima, mentre rammentava, udì il battito di ali,
vide una pernice bianca e poi all’improvviso vide suo figlio Tita poco lontano. La madre lo strinse al
cuore e lui con fare concitato iniziò a raccontare cosa gli era successo. “Oh
mamma se solo sapessi! Ieri sera sono andato a dormire sul monte Dociuril con
tutte le pernici e c’era anche Mèina, ma all’improvviso tu ci chiamavi,
prendevi per mano Mèina andandotene e lasciando tornare me al riparo con gli
altri uccelli. E mentre facevo questo sogno mi sento scuotere e vedo Mèina
davanti, che mi mette fretta affinché io ti raggiunga e tu possa oltrepassare
il fosso, oltre il quale non potresti spingerti senza di me. Poi è
arrivata una donna vestita di bianco con un fazzoletto al collo ed ha chiesto
quanti uccelli fossimo, le abbiamo detto di essere quarantanove, ci ha quindi
contati per essere sicura di quel numero e poi ci ha detto che l’Uomo dei
Ghiacci aveva deciso di fare ritornare in forma umana uno di noi, mi indicò e
mi mostrò la strada che dovevo seguire per raggiungerti.” Miola si sentiva
sicura, sapeva che sarebbe tornata a casa con Tita, lo avevano confermato
Mèina, la Donna di bianco vestita e l’Uomo dei Ghiacci che aveva permesso a
Tita di ricongiungersi con lei. Guardò in direzione di Ce-de-lù e gli intimò di
lasciarla passare con il figlio, l’Inesorabile capì che non poteva più niente,
serrò i lunghi denti ma arretrò scomparendo fra le rocce. Miola oltrepassò il
fosso ghiacciato con Tita, il loro passo era diretto verso casa, imboccando il
sentiero di ritorno che li riavrebbe portati verso la loro abitazione tirò un
sospiro di sollievo, le nubi alle spalle continuavano a far avvicinare una
nuova tormenta di neve ma di fronte a lei sorgeva l’alba.
Note:
1) Vivena, sinonimo anche
di anguana, donna che abita i boschi e le grotte, che ha il dono della
premonizione.
2) Cè-de-Lu (Ladino) Capo-di- Lupo/Uomo Lupo Fatùrec (fantasma) che nelle notti d’inverno si aggira per le alte
vette. La sua visione viene considerata foriera di neve. Viene detto anche
’l’Inesorabile’ in quanto nessuno può combatterlo.
3) Le Cristanne sono donne
selvatiche del monte Gardenaccia che conoscono il futuro.
La leggenda delle ‘Due
Madri’venne ascoltata da K.F.Wolff la prima volta nel 1905 in Alta Val di
Fassa, da un’anziana del luogo, fonte attendibile, a detta dello scrittore,
della storia e dei numerosi particolari che la
caratterizzano. La storia viene pubblicata però solo la prima volta nel 1930 in
una rivista locale ‘Bozner Hauskalender’. L’adattamento su cui si basa la mia
narrazione è riferita alla versione originale di Wolff, di cui ho letto due traduzioni dello stesso autore (1967 e 2013) sebbene l’abbia comparata con quella
di Brunamaria Dal Lago e quella di Nicola De Falco, che, entrambi ne tracciano
un racconto più breve e per certe parti rivisitato. La mia scelta di farne
anche un racconto lungo e particolareggiato deriva dal fatto che nella versione
originale la narrazione è fitta di particolari che ritornano ed offrono in
maniera marcata elementi di numerologia
e simbologia che ho ritenuto utili ripercorrere in quanto rappresentano un
racconto simbolico nel racconto. Andando oltre il velo delle parole intessute a
creare la trama della narrazione, si osserva l’immagine che ne deriva e che
amplia un processo informativo che è via di accesso a saperi ulteriori, che
sicuramente possono essere approfonditi molto di più degli accenni di cui mi
appresto a scrivere, ma che intendono essere spunto di riflessione e di
esplorazione ulteriore.
La premonizione
E’ l’elemento principale della storia, che si manifesta in più frangenti,
sogno, comunicazione, visualizzazione. Attraverso il sogno Miola verrà a
conoscenza del suo avvenire nella grotta della Vivena, che pure è in grado di
prevedere il futuro e di confermarle cosa accadrà nella sua vita. Legate alla
profezia sono anche le Cristanne, le donne selvagge che Miola incontra lungo la
sua salita al monte Aut. Sanno già dei suoi figli rapiti e di chi li tenga e si
offriranno di dare saggi consigli. La madre defunta di Mèina,
Miola la incontra due volte, a distanza di anni, la prima in sogno, la seconda
vedendola insieme alla figlia. Entrambe le volte la donna dal fazzoletto intorno al collo
appare in boschi di abeti.
Da matrigna a Madre.
La grotta della Vivena è il primo luogo importante della storia, è quello dove
avviene la premonizione e dove inizia la trasformazione che porterà Miola alla
realizzazione che lei sarà madre della figlia dell’uomo che sposerà e non
matrigna come la società in cui vive, vuole definirla. Del resto il termine
matrigna seppur provenga dalla stessa radice di madre, evoca nell’immaginario
una madre che non biologica, si rivelerà con molta probabilità non amorevole se
non addirittura ostile, verso i figli di primo letto di un marito. In questa
visione si mettono in competizione le due anime femminili della famiglia, anche
e a maggior ragione perché non dello stesso sangue. Miola invece è lontana
dalla cultura in cui è cresciuta, non comprende, lei manifesta caratteristiche
prettamente appartenenti alle donne che nascono e crescono in contesti
matriarcali, in cui all’educazione di una bambina o un bambino partecipa la
comunità tutta. Lo mette bene in evidenza quando dice alla Vivena di volere già
molto bene alla bambina del vedovo che ama e di non comprendere la
preoccupazione e l’opposizione della sua famiglia. Lei sarà madre due volte ma
solo una volta biologicamente. La storia incentrata su una madre ed una
matrigna ed un figlio ed una figliastra, manifesta come questi termini, diventino
peggiorativi del ruolo sia di madre che di figlia. Le qualità di Miola vengono evocate bene nella
versione della Professoressa Dal Lago Veneri, quando inizia il suo racconto con
una frase tratta dall’opera di Johann Jakob Bachofen, giurista, storico ed
antropologo svizzero, che scrisse nel 1861 ‘Das Mutterrecht’, ‘Il Diritto delle
Madri’, noto anche come ‘Il Matriarcato’, evidenziando come le culture
matriarcali fossero culture di pace ed anche dove c’era guerra portavano un
cambiamento di paradigma incentrato sugli equilibri fra persone e natura. Ed è
proprio Miola che essendo connaturata a questa forma mentis, nella versione
in analisi asserisce “Io sono della razza delle Madri, quelle che hanno mutato
le spade in aratri: io farò pace” come a dire, io scardinerò i meccanismi a cui
tutti ci siamo abituati e che vedono solo la madre biologica a poter essere
madre amorevole di una figlia che non provenga dal suo grembo. Se è vero che
Miola attua questo in nome di in un giuramento è anche vero che dichiarando sin
da subito di volere molto bene alla bambina manifesta affetto sincero da prima
dell’impegno preso.
La grotta Elemento
che compare due volte nel racconto, è il luogo in cui Miola viene avvertita del
fatto che sarà madre due volte, della figlia di colui che diverrà suo marito e
del figlio che nascerà dal suo grembo; è anche il luogo dove l’Om de la Jàcia –
l’Uomo del Ghiacci va a cercare le pernici, cioè i bambini morti e trasformati
in questi candidi animali. La grotta simbolo della Dea, si manifesta così come
luogo di collegamento fra i Mondi della Vita e della Morte.
Tita La
scena in cui rimescolando la polenta nel paiolo-calderone il contenuto si
rovescia e lui si brucia mi ha riportato a reminescenze della mitologia gallese
con la figura di Gwion, quando nel racconto di Ceridwen si scotta con la
pozione del calderone.
Numerologia Se
i numeri compaiono spesso nelle narrazioni, leggende o fiabe che siano, in
questo racconto vi è una particolare abbondanza di numeri e di una lettura di
tipo unitario rispetto al contesto narrato e di origine. La descrizione che ne
deriva non vuole certo essere esaustiva di tutti gli aspetti che i numeri
rappresentano, ma una considerazione personale di come certe cifre ritornino e
si collochino in un determinato contesto di tipo ‘circolare’. Tita il figlio di
Miola ha 7 anni e Méina 13. 7 il numero della totalità dello spazio e del tempo
e del movimento ad essi correlato. Origina dalla somma di 3+4 e quindi dal triplice aspetto e manifestazione della divinità e dal quattro dei corrispondenti elementi della manifestazione terrena della vita. E’ il numero che unisce il
fisico e lo spirituale diventando il numero magico per eccellenza. Méina sarà
la ragazza che a 13 anni muore, perché questo era nel suo destino, ma il 13 al
pari del 40 rappresenta la morte fisica e soprattutto simbolica, ma anche la
Vergine Maria. La Madonna e quindi ancora una volta il Sacro Femminile, viene
richiamato anche dal 49, numero delle pernici presenti sul monte Aut. Tornando
al 3 sono tre le volte che Miola si sveglia nella notte perché presagisce
qualcosa di grave. Mentre il 2 delle due madri, dei due figli, dei due fratelli
che vanno a cercare Mèina e Tita quando non tornano a casa, indica la polarità
che nella cultura pre-cristiana era vista non come separatrice ma come
complementare e nel racconto si sottolinea magistralmente, le due madri
sceglieranno il loro ruolo, secondo i piani in cui esistono, la donna morta
fungerà da monito a Miola ogni volta che l’impegno preso dovesse venir meno; la
madre viva, Miola, accetta l’impegno di ampliare e vivere la sua maternità
oltre la comune accezione del suo tempo; i due bambini per quanto litighino,
per quanto Mèina sia distratta talvolta nel confronti del fratello, salgono
insieme a recuperare il carico di legna del padre. Quindi affrontano insieme l’impegno
oneroso, di condividere quell’esperienza che sarà oltre l’intento primario.
Sono gli opposti che non divengono antagonisti ma alleati. Quando Miola va a
cercare i figli su per la montagna viene accompagnata da 7 uomini che
diventeranno poi 5 e poi 1 a seguito di 3 valanghe. Rimasta sola, proseguirà senza nessuno la sua ricerca. 7+5+1 ha come risultato di nuovo 13. La morte fisica per
Mèina sarà comunque anche accompagnata dalla morte simbolica di Miola, che vive
accanto ai figli una vera e propria iniziazione, le valanghe, la isolano e la
proteggono in questo percorso che poteva essere solo suo e dei figli, solo così
potrà esplorare la ‘profondità’ di quel cammino. 5 infine sono le punte del
monte Aut dove i figli trasformati in bianche pernici abitano, il 5 numero che
collega il basso con l’alto, ci riporta al pentacolo, altro simbolo della Dea
Madre.
Il bosco di abeti La
madre di Méina sia quando viene sognata che quando viene visualizzata, nella
storia emerge da un bosco di abeti. L’abete sempreverde simboleggia fra le
altre cose ciò che non muore, e quindi ci parla di una morte apparente, e ben
si ricollega al significato del numero 13 degli anni di Méina.
Aspetti della Dea.
In questo racconto viene narrata la Dea nella sua emanazione di Regina del
Gelo, foriera di neve e ghiaccio, quindi nella veste seppur innominata di
Samblana, o di Holle, Holda o Berchta, Perchta. Suoi rappresentanti diventano
così l’Om de la Jàcia-l'Uomo del Ghiaccio (una sorte di Caronte dei monti) e
Cé-de-lu l’Uomo Lupo. L’Uomo Lupo è fantasma delle alte vette, che riveste oltre
a rappresentazione della Dea dell’Inverno anche quello di Guardiano,
riconducibile anche a manifestazione e figura che le paure di Miola assumono,
ed è solo nella fermezza di colei che sa cosa vuole e dove intende andare
perché lo pensa e lo sente, che lui scomparirà fra gli anfratti della montagna.
Berchta compare nella Ruota dell’Anno come Dea Oscura variando poi in Dea
Luminosa. Berchta è anche colei che connota la stagione tardo autunno-inverno sino
alla soglia della festa di Imbolc, quando la natura timidamente inizia a
mostrare i primi segni della vita che riprende. Questo aspetto è ben
rappresentato dal rifugio de l’Om de la Jàcia-l'Uomo del Ghiaccio, che abita in una forra fra le
due vette poste più ad est del monte Aut, che pone questo racconto a cavallo
fra la Morte e la Vita fra l’inverno ed il primo timido cenno di cambiamento che
si ha con il mese di gennaio dalla sua seconda metà in poi, quando le giornate
visibilmente già più lunghe offrono quà e là abbozzi di qualcosa che pulsa
sotto la terra, dopo la quiete del tempo del buio sebbene il ghiaccio, alle
alte quote la faccia ancora da padrone. Anche Miola oltrepassato il fosso
ghiacciato, ed imboccato il sentiero boschivo che la porterà a casa vede in
lontananza l’alba, sebbene alle spalle il paesaggio sia connotato da nubi che
porteranno nuove tormente di neve.
Le pernici La
figura della Dea dell’Inverno è ben rappresentata anche dai bambini defunti che
vengono trasformati nei bianchi uccelli simbolo della montagna, ma anche come
altri uccelli ci conducono al concetto di morte e ci riportano alla figura di
Berchta (Holda, Perchta, Holle) ed al suo corteo che sorvola la Terra alla fine
delle 12 Notti Sante del Tempo del Solstizio d’Inverno, sebbene nella versione
tradizionale i bambini morti vengono trasformati dalla Dea in cani. La pernice
inoltre è simbolo associato alla greca Dea Artemide, che fra le varie
peculiarità è anche una Dea che porta fertilità e rinnovamento al pari di
Berchta, e come Berchta gira per i boschi con un proprio corteo, questa volta
di ninfe. Entrambe le Dee rappresentano le mutevoli energie del Femminile. La figura della pernice acquisì poi in epoca cattolica una valenza
negativa ed addirittura diabolica poiché secondo una visione ebraica, ruba e cova
le uova che non sono state deposte da lei, manifestando avarizia. Ma torniamo
alla lettura pre-cristiana. La pernice cambia il suo manto rendendolo
immacolato in inverno e sfoggiando un piumaggio screziato marrone quando la
neve si scioglie, manifestando così una grande capacità di trasformazione, la
stessa trasformazione che avviene con la morte, portando la sua visione oltre l’apparenza
del concetto di termine di qualcosa in variazione e trasformazione. Vladimir Propp
nel suo ‘Le radici storiche dei racconti di magia’ ci illustra come la morte
sia spesso associata alle figure di uccelli e Nicola De Falco nel suo ‘Miti
ladini delle Dolomiti’ sottolinea come le anime dei morti furono così spesso
associate a figure ornitomorfe e come questo non possa essere letto come una
casualità. La cosa interessante in questa analisi est-ovest è la similitudine di
significato che gli uccelli rappresentano in Tradizioni che se lontane
fisicamente manifestano invece vicinanza e affinità ed a cui è utile volgere lo
sguardo in una lettura comparata di
leggende o fiabe. Fra le vette ladine abbiamo però altre figure che suffragano
questa visione, compare così Filadressa, la
donna rapace dell’Ampezzano che rapisce i bambini trasformandoli in uccellini e
custodendoli fra le rocce del Sorapiss. Pelna,
una ninfa che si presenta come colomba e rapisce l’anima del suo amato.
Versione analoga troviamo in Val Gardena in cui si manifesta come usignolo. Abbiamo anche il Variul
da la flüta, il rapace dal becco d'oro che con un alito di fuoco accese la fiamma sacra in eterno ricordo del Regno dei Fanes.Sempre all'interno della saga del mitico popolo delle Dolomiti troviamo la figura ctonia della strega Tsicuta che si presenta spesso come gazza o cornacchia. E sempre corvi sono coloro che consegnano le anime dei caduti in battaglia, che trasformati dalla potenza numinosa si muteranno in fiori variopinti.
Immagini tratte dal web
Bibliografia
*Carlo Felice Wolff L’Anima delle Dolomiti, Capelli Editore 1967 Pag. 129
*Karl Felix Wolff Leggende delle Dolomiti, il Regno
dei Fanes, Mursia Editore 2013 Pag. 105
*Bruna Maria Dal Lago,
Elmar Locher Leggende e racconti del Trentino Alto Adige, Newton Compton
1983 Pag. 59
*Nicola Dal Falco Miti ladini delle Dolomiti. Le Signore del tempo, Palombi Editori 2013 Pag.126
*Christian Stocchi Dizionario della favola antica, BUR Biblioteca Universale Rizzoli 2012
*Patricia Monaghan Figure di donna nei miti e nella leggenda, Edizioni Red 2004
*Vladimir Ja. Propp Le radici storiche dei racconti di magia, Newton Compton Editori 1977
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