Tempi, molto spesso, di
finti scambi, tempi di socialità asociali o poco costruttive. Tempi che viviamo
oggi, compressi sovente fra l’esternare un punto di vista e l’incapacità di
essere compresi o forse ancor prima di non farci comprendere dal nostro
interlocutore, specialmente ‘virtuale’, non ricordandoci del resto, che se il web è
un grande mezzo, per discutere di un argomento, diventa estremamente
limitativo, e lo scambio rischia di diventare scontro, innanzitutto per come ci
poniamo e poi per come reagiamo a chi la pensa diversamente da noi. Questa è la
cultura del dimostrare dove ‘io ho ragione e tu hai torto’, ‘io ho la verità in
tasca e tu non ne sai nulla’, è la cultura della faziosità, dove per forza il
giusto si contrappone allo sbagliato, per cui alla fine le argomentazioni
languono, ed i punti da cui potrebbero scaturire riflessioni e visioni nuove si
dissolvono. Così i toni che dapprima possono essere stati accesi, diventano di
sufficienza e scherno, con quell’aria di pena per l’altrui pensiero, che ti fa
sorgere tante domande, su dove si sia perso il senso del confronto, della capacità che sta alla base di una società che sappia rapportarsi. Così, sempre
rimanendo in ambito virtuale assistiamo poi alle forme di ‘buonismo’, dove
coloro che hanno raggiunto la (loro) verità su un argomento, invitano alla
‘pseudo’ compassione verso coloro che invece pensano diversamente, memori del
fatto che anche loro un tempo agirono ‘erroneamente’. E assistiamo poi a
comportamenti tipo quello dell’essere prevenuti, del pensarsi più furbi e
comunque più esperti di qualcun altro, che magari di un argomento potrà essere
meno esperto, ma la cui idea va rispettata a priori e non ghettizzata e
sminuita. Che poi il virtuale è solo uno specchio del reale, e quindi
difficilmente un atteggiamento avuto sui socials non avrà corrispondenza negli
atteggiamenti di tutti i giorni e vice versa. Un modo di vedere le cose può
essere anche non condiviso, questo è più che lecito, del resto tutto è
opinabile, ma l’acredine che alimenta certi atteggiamenti è incomprensibile,
parla di prevaricazione e della necessità di primeggiare sull’altro. Da sempre
nella storia, il dubbio ha aperto strade, ha manifestato nuove letture, il
dubbio di oggi è la realizzazione di domani. Quando attuiamo la cultura del
dimostrare, accade esattamente questo, e perdiamo, tutti,
indistintamente, perdiamo la capacità del dialogo, del confronto,
dell’arricchimento o anche semplicemente del riconoscere, senza quel senso di
superiorità che tanti pervade, che nega ad un’altra persona, il diritto a
pensarla diversamente. Questi sono tempi di roghi verbali, di gogne mediatiche,
di fuochi che ardono in maniera più subdola di quelli che sopprimevano
avversari inesistenti, in quanto persone scomode solo perché non si adeguavano
ai modelli religiosi o ideologici di un tempo, e di cui abbiamo esempi lunghi secoli. Il
meccanismo è sempre uguale, ha solo cambiato abito. Ed allora ancora una volta,
rifletto su quanto poco la storia abbia insegnato a tutti noi e dove la cultura
del mostrare un’idea, sia divenuta altro. Per quello ritengo vi sia diversità
fra dimostrare e mostrare, sebbene il nostro dizionario ne evidenzi la
sinonimia, con l’origine di dimostrare dal latino de-mostrare, dove il
prefisso ‘de’ ha valore rafforzativo, al lato pratico però la differenza si
evince da sottile quanto intensa evidenza. Quando mostro, ti faccio vedere, ti
rendo partecipe di un pensiero o opinione e poi è libertà, libertà di
condivisione, arricchente condivisione che tende una mano, nel dialogo e
nell’offrirsi, non sognerebbe mai di imporsi o imporre, mai è spocchiosa, mai
tracotante. Invece nel voler dimostrare c’è quel ‘troppo’ che si rivela in
maniera sempre più insistente, da una parte o dall’altra, creando dei tiri alla
fune ideologici, che sanno non di conoscenza, non di cultura, non di ricerca
autentica, non di confronto teso alla crescita. Perché poi nell’onestà della
riflessione, quando non riconosciamo l’altro, crediamo davvero di riconoscere
noi stessi? La Vita esiste in termini di reciprocità, l’estate potrebbe esistere
senza l’inverno? E così l’est avrebbe senso senza l’ovest? E come posso pensare
di esistere se non tengo conto anche di chi la pensa diversamente da me? Che
non vedo come antitetico ma solo come diverso, di quella stessa diversità di
cui sono fatti l’estate e l’inverno. Dobbiamo cambiare paradigma soprattutto
interiormente, perché solo se coltiviamo l’ascolto e lo scambio, possiamo dirci
disposti a ricevere quel nuovo che nasce solo dal dubbio e dal mettersi in
gioco e passare, solo in questo modo, dalla logica del voler dimostrare spesso
con la forza o con atteggiamenti violenti già a livello verbale, alla logica
del mostrare senza forzatura e senza pressioni, uscendo da quella inestricabile
dualità vero-falso e soprattutto ritrovare quell'imprescindibile valore chiamato buon senso.
Lujanta
Nessun commento:
Posta un commento